MALASTRUC: ARNAUT DANIEL E RAIMBAUT D’AURENGA

Ar non sui jes mals et astrucs,

Anz sui ben malastrucs de dreg;

E puois malastres m’a eleg

Farai vers malastruc e freg.

Si trop un malastruc adreg

Que·l malastruc cap mi pesseg!


Que per totz temps sui malastrucs

Per un gran malastre qe·m ve;

E qui per malastruc no·m te

Dieu prec de malastre l’estre

Que mil malastruc foran ple

Del malastre q’ieu ai en me.


Dompna, per vos sui malastrucs

Car per malastre·m voletz mal;

E fis ben malastruc jornal,

C’anc nuills malastrucs no·l fetz tal!

Malastruc tro manatz engal

Per que d’est malastruc no·us cal.


Er aujatz cum sui malastrucs:

Qand cuich de malastre mover

Eu sui plus malastrucs en ver!

C’ab malastre·m laissiei cazer,

E pois vinc malastre querer,

Don aurei malastruc esper.


E pus aysi soy malastrucs

Mos pels malastrucx mi tolray

– Aytan del malastre perdray –

E si·l malastre no s’en vay

Malastrucx sia qui mi play

Car tan de malastre m’eschay.


S’ieu atrobes dos malastrucs

Q’anesson malastrugamen

A me mais malastre queren,

Adoncs for’ieu malastruc-gen;

Mas non trob malastruc valen

C’a me de malastre·s prezen.


Et eu sui aitant malastrucs

Qe de malastre port la flor

Et ai ben malastrug honor.

Levet, malastruc de seignor,

Tu chantes malastre ab plor

D’aquest malastruc amador!


Tu iest malastrucs de seignor

Et ieu soi malastrucs d’amor.

Raimbaut d’Aurenga si definisce – in questa chansòmalastruc, utilizzando un termine, un concetto, senz’altro caro alla cultura medievale, che ricorre con notevole frequenza nella poesia trobadorica, che sarà ereditato poi anche dalla poesia italiana – non ultimo Dante (con le voci malastrù, malastrudo, malastro, malestro e il malfatato dantesco) -. Malastruc è colui che si trova al di fuori dall’influenza di una “buona stella”, ed è perciò “malastrato”, sfortunato. L’importanza del termine è legata sia alla dottrina filosofica delle influenze celesti – durante la stagione trovadorica e più precisamente nell’inoltrata seconda metà del XII sec probabilmente ancora in fieri ma certamente già largamente nota e operante, per esempio in area italiana, mezzo secolo più tardi – sia soprattutto al concetto di Fortuna, centrale specie nella poesia goliardica, a sottolineare come lo status di colti dei clerici vagantes, la frequentazione degli ambienti universitari e il diletto nel trobar accomunassero e consentissero frequenti scambi tra i goliardi, legati al mondo ecclesiastico, e i poeti cortesi. Nell’elaborazione goliardica, come risulta evidente dai Carmina Burana, coi quali essa massimamente s’identifica, il concetto di Fortuna – dalle caratteristiche paganeggianti – quasi si sostituisce alla Legge Divina, ma di fatto a questa si accompagna, rappresentandone la realizzazione terrena, più immediatamente riconducibile all’ambiente delle taverne, perfettamente esemplificata nel gioco dei dadi. Infatti, la Fortuna è rappresentata miniaturizzata come una ruota, che girando sottolinea l’imprevedibilità, la fugacità, ma anche la circolarità della contingenza, una sorta di regolarità per cui è possibile sovvertire l’ordine sociale, per cui quindi i poveri si trovano improvvisamente ad essere ricchi e viceversa, riportando di fatto l’attenzione e ammonendo gli uomini che tutto il mondo terreno è nelle mani di Dio: chi si lascia perciò abbindolare dall’avidità e dalla superbia agisce in modo anticristiano ed è condannato alla rovina temporale ed eterna – e non è raro infatti trovare associate, alla fugacità delle ricchezze, anche le considerazioni sulla grandezza umana, dei signori, che si definisce soprattutto in base alla loro prodigalità, al loro mettere a disposizione le proprie ricchezze in favore di molti, rimandando all’immagine dei giullari che sopra ogni altra cosa chiedono ai signori di donar loro un cavallo.

L’indagine sul concetto di fortuna nel Medioevo parte necessariamente – come ha sottolineato Howard R. Patch in The goddess Fortuna in the Medieval literature – da una mancanza: ci si può affidare unicamente alla parte istruita della popolazione. Nonostante le pressoché inesistenti attestazioni, presso le classi inferiori molto probabilmente sopravvivevano più a lungo culti primitivi, più legati alla religione o folkloristici.

Sappiamo da S. Agostino e dagli altri Padri più antichi che la Fortuna rimase lungamente “viva” – e in realtà, fino al presente, non si è mai estinta – presso le popolazioni europee medievali, e non solo come figura letteraria, nonostante le continue allusioni e la quasi meccanica ripetizione delle formule a essa comunemente associate: gli scrittori, dopo tutto, dovevano costantemente mantenere un rapporto col pubblico, scrivevano, nella maggior parte dei casi, per un pubblico, e da questo, e insieme dalla cultura popolare, riprendevano e forgiavano spregiudicatamente tematiche e motivi fortemente ricorrenti, a inquadrare un modello di vita esistente o auspicabile, da cui trarre insegnamenti e riflessioni.

Nel periodo precristiano la Fortuna non era sempre inquadrata nell’accezione di casualità, sorte, anzi il termine stesso non sembra indicare specificazioni particolari entro il generale concetto di Fato. Anche a livello morfologico-lessicale, dalla radice indoeuropea *bher sarebbe derivato il sostantivo Fors, da cui Fortuna per aggiunta del suffisso -nus, a indicare appartenenza (esattamente come Romanus per Roma). Il fatto che la Fortuna fosse strettamente legata al Fato sottolinea come lo sviluppo del termine possa essere legato al concetto ellenistico di Tuchè. Che il Fato operi in modo casuale, capriccioso è però un’aggiunta successiva: si oscilla quindi da un periodo in cui si vede l’universo dominato da un ordine, per cui Fortuna è equivalente a Fatum, un destino già scritto e ineluttabile, di cui la Fortuna si fa portatrice, a un altro nel quale emerge più preponderante il capriccio per cui Fortuna è associata alla casualità. Per quanto riguarda il Medioevo, è importante osservare come, alla fine del periodo classico, fosse accettata più comunemente la seconda posizione, come testimoniano già Ovidio nei Tristia – “Fortuna volubilis errat et manet in nullo certa tenaxque loco” – e Plinio il Vecchio nella Historia Naturalis. Plutarco (De Fato) richiama la filosofia aristotelica, dimostrando l’esistenza della Fortuna dipingendola come la causa per accidens, necessaria all’esistenza del libero arbitrio: perciò essa possiede una base razionale senza esserlo però totalmente, in quanto non è in alcun modo legata alla ricompensa della virtù né alla punizione dei vizi.

Nel periodo imperiale, il concetto di Fortuna era dunque completamente legato alla casualità: l’ambizione di conquiste territoriali senza limiti spingeva verso l’ignoto, il rischio, che naturalmente implicava la casualità degli eventi; oltretutto, proprio dal venire in contatto con culture sempre diverse e la predisposizione a mantenere i culti religiosi dei popoli conquistati, coi quali molte volte il culto romano finiva sincreticamente per fondersi, lo “scetticismo” religioso era piuttosto generalizzato, quindi la profondità spirituale, il rapporto con la divinità, non era mai comparato né mai contrastava con la dea Fortuna, regina capricciosa. Al contempo, l’uomo romano, sentendosene in balia, cercava però di limitarne i poteri, opponendole la forza del coraggio, della saggezza, della virtù, di fatto prendendo la direzione che negava l’esistenza stessa della Fortuna: un punto di contatto con la cultura cristiana successiva.

Certamente il passaggio dalla Fortuna Dux alla concezione cristiana, con la presenza di Dio e la suprema importanza della virtù, non fu rapida, né omogenea, né immediata: in realtà non si può affatto dire che la religione cristiana abbia soppiantato la Fortuna nel pensiero come nell’agire umano. “Le popolazioni, che poco comprendevano e ancor meno si interessavano alle sottili dispute e sottilissime distinzioni operate da teologi e filosofi, non abbandonarono mai la fede in uno o più poteri, occulti e irresistibili, distinti e separati dalla volontà divina, e variamente designate coi nomi di destino, fortuna o influenza astrologica” (Arturo Graf).

Natualmente, la dea Fortuna continuò il proprio percorso non senza aggiustamenti: i Padri della Chiesa le avevano “dichiarato guerra”, non combattendola più solo con fortezza d’animo, prudenza, con l’aiuto della filosofia, o della virtù, ma negandone a chiare lettere l’esistenza, reinterpretando allo stesso modo anche l’argomento aristotelico della causa per accidens. Così leggiamo in S. Agostino, Lattanzio, S. Tommaso d’Aquino: la Fortuna è identificata per lo più con lo spirito del Male, insieme a tanta altra parte della cultura pagana.

Ma la concezione più paganeggiante della dea continua ugualmente a esistere, emergendo anche nell’Anticlaudianus di Alano di Lilla – dove comunque la descrizione oscilla spesso e confusamente dall’immagine della divinità alla mera personificazione dell’idea astratta, ma pur sempre riappare nella sua forma pagana. Ancora, altri autori, su tutti Boezio, tenevano presenti sia la figura di Dio sia quella della Fortuna, senza preciso intendimento di conciliare le due concezioni: la casualità rende possibile il libero arbitrio, ma il fato è subordinato a Dio, così come la casualità stessa, originata da cause ignote, è soggetta alla Provvidenza divina.

L’idea del De consolatione boeziano è riportata e poeticizzata da Dante, il quale ancora una volta sincretizza il concetto pagano e quello cristiano, come è evidente da Inferno, VII, 67-96: “[…]Colui lo cui saver tutto trascende/ […] alli splendor mondani/ ordinò general ministra e duce/ che permutasse a tempo li ben vani/ […] oltre la difension di senni umani;/ […] Vostro saver non ha contasto a lei:/ questa provede, giudica e persegue/ suo regno come il loro li altri dei./ Le sue permutazion non hanno triegue;/ necessità la fa esser veloce; […]”.

Nel periodo successivo a Dante, le posizioni si attestano sempre sui tre filoni principali che vedono la Fortuna come la divinità con le sue caratteristiche pagane, come la forza che coesiste con Dio (ma al Creatore è subordinata), oppure ancora come l’intelligenza celeste che determina gli influssi astrali sull’animo umano (che ritroviamo ancora una volta in Dante, in Convivio II, Purgatorio XVI e Paradiso VIII). Nel Petrarca del De remediis utriusque fortunae ad esempio emerge la conflittualità che oppone al capriccio della Fortuna la fortezza d’animo e la devozione spirituale; ancora Petrarca, in una concezione solidamente agostiniana, tornerà sulla questione anche nell’epistola a Tommaso del Garbo (Seniles I, VIII, 3): “[…]la Fortuna ho sempre stimato esser nulla […]”; ancora Boccaccio evolve il proprio concetto da quello ovidiano di Fortuna volubilis a un’idea più strettamente cristiana, mai però dimentica dell’elaborazione dantesca, che riemerge anche in Pico della Mirandola.

Durante Umanesimo e Rinascimento torna preponderantemente al suo splendore la Fortuna come divinità paganeggiante, così come la ritroviamo, tra gli altri, in Machiavelli e Guicciardini, ancora in Pulci, Boiardo e Poliziano.

Strettamente legati all’ambito italiano sono naturalmente quello inglese e francese, all’interno dei quali sopravvive ancora la concezione paganeggiante e si profila ugualmente un attestarsi delle posizioni dalla negazione cristiana all’immagine sincretica dantesca. In Francia, ad esempio, in testi come il Roman du Renart e nelle opere di Chretien de Troyes è fondamentale la non opposizione tra Dio e la Fortuna, ma anzi che essi operino in qualche maniera d’accordo, concezione che diventa ancora più forte ne La Manekine di Philippe de Beaumanoir – dove Dio consente alla Fortuna di governare il mondo -, in un dialogo tra la Fortuna e Pierre de la Broche – dalle forti reminiscenze boeziane – e nell’opera di Watriquet de Couvin, all’interno dei quali si vede la Fortuna totalmente soggetta alla volontà divina. In particolare Watriquet de Couvin descrive l’Avventura piuttosto che la Fortuna (ma in realtà entrambe rappresentano la stessa idea, anche la Fortuna per esempio in ambito italiano ma soprattutto francese era nominata spesso Ventura) dando esplicitamente l’idea del rapporto che sussiste tra Dio e la divinità capricciosa: “[…] Frère, on m’apele Aventure,/ en terre m’a Diex establie;[…]”.

Nella letteratura francese fiorisce anche il concetto della Fortuna come divinità d’amore: ad esempio in Panthère d’Amours di Nicole de Margival, Les echecs amoureux, ancora nelle opere di Guillaume de Machaut, Froissart, Deschamps e altri. E il rapporto tra Fortuna e Amore si rivela essere assolutamente dinamico, tanto che Amore non può dirsi mai completamente soppiantato, totalmente in balia della Fortuna. Certo è che, però, pur non sostituendosi al dio dell’Amore, la Fortuna può prodigare o trattenere per sé, a suo giudizio, ricchezze e gloria che certamente avvicinerebbero più facilmente l’amante all’amata. I ruoli delle due divinità tendono talvolta a intrecciarsi tanto da confondersi forse perché l’affinità tra le due è parecchio accentuata ed evidente, già riconosciuta tra XI e XII sec da Ildeberto di Lavardin nel De infidelitate Fortunae et Amoris mundi: Amore e Fortuna sono entrambi senza fede, non danno dolcezza senza tormento, affanno. La Fortuna solleva gli uomini e li sprofonda un attimo dopo, così come l’Amore li blandisce e poi li brucia, li uccide. Altri autori posero tuttavia una distinzione netta tra Fortuna e Amore, per cui la prima si trovava a ostacolare l’operato dell’altro – esattamente come nel caso di Raimbaut d’Aurenga, nel componimento in testa all’articolo, o come anche Arnaut Daniel, anche se non così apertamente dichiarato come per il suo auctor, di cui conosciamo il malastre amoroso dalla vida, dalla tornada di Ab gai so e ancora da Amors e jois e temps e luecs.

Oppure, ancora, spesso le due divinità così affini si trovano a operare insieme, entrambe accusate di causare le pene degli amanti, come ne Li romanz de la Poire. Ma già in questo caso, e ancor più nel già citato Panthère d’Amours, la Fortuna sembra prendere il sopravvento totale sull’Amore: le questioni amorose si decidono sul giudizio di Fortuna, così come questa prende il controllo della Corte d’Amore e la rende propria. Forse il primo, più antico, esempio della preponderanza della dea si trova già nell’epistolario di Abelardo ed Eloisa (lettera IV): la Fortuna separa gli amanti, dopo averli uniti, e provoca in loro atroci sofferenze. Da questo momento in poi, Fortuna si immischia di peso nelle questioni amorose: aiuta gli audaci, guida gli amanti, li unisce e li fa innamorare, fa in modo che consumino il loro amore, fa nascere i loro figli. E’ Boccaccio, nell’Elegia di Madonna Fiammetta, a descrivere i metodi della Fortuna, portando l’attenzione sul fatto che generalmente essa, dopo averli spinti l’uno nelle braccia dell’altra, si pone contro uno o entrambi gli amanti. Ha il cuore duro, invidioso, ostile, e finisce col tormentarli, portandoli fino alla separazione. In questo modo, quindi, Fortuna finisce col disfare ciò che Amore ha creato, e tale rapporto tra le due divinità non è certo casuale, tanto che in molti modi le sue caratteristiche vanno a ricalcare quelle di Amore. Anche Fortuna è cieca, incostante e capricciosa, e rifila frecce alle sue vittime. Arriva così il momento in cui l’identificazione e l’interscambio divengono così pressanti da identificare, quasi sostituire, Venere e sua sorella Fortuna, tanto che ne Les echecs amoureux (databile al XV sec), si vede Venere girare una ruota, esaltando o svilendo l’umanità.

Ma facciamo un momento un passo indietro per parlare ancora delle caretteristiche, della descrizione vera e propria e delle attività della Fortuna, così come si stabiliscono e variano nel corso del Medioevo. Intanto, è necessaria una distinzione, seppur sottile, di base: la personificazione del concetto astratto di fortuna – perciò appunto la buona fortuna, salute, ricchezze et similia – non implica certamente che la Fortuna sia una dea, anzi personificazione e divinità tendono spesso, erroneamente, a essere confuse, quasi sovrapposte – a indicare forse una poco chiara conoscenza della divinità da parte degli Autori che facevano confusione. Un discrimine importante tra le due può essere certamente la qualità dei doni: mentre la personificazione si qualifica dai doni – perciò è assimilabile a un tipo – la divinità esiste di per sé, non in quanto prodiga di beni per lo più materiali. La dea Fortuna può dare o togliere, secondo il proprio capriccio; è puramente simbolica; inoltre non soffre del suo stesso operato, come invece è più probabile pensare della personificazione: a tal riguardo è senz’altro utile riferirsi a quelle rappresentazioni grafiche, in cui spesso è coinvolta anche la ruota della fortuna (di cui si parlerà più avanti), nelle quali si vede la figura della fortuna come intrappolata nel movimento della ruota stessa, quindi soggetta a un controllo certamente improbabile per una divinità.

Un ambito altrettanto variabile è quello delle descrizioni letterarie della Fortuna: non di rado le vengono attribuite due facce, una bellissima, l’altra orribile, le quali probabilmente rappresentano, insieme all’espressività facciale della dea, che può sorridere o essere accigliata, l’imprevedibile e continuo mutamento d’umore, da cui dipendono i rivolgimenti che colpiscono gli uomini. Ancora, soffermandoci sempre sul viso della divinità, possiamo trovarla “dipinta” cieca oppure bendata, a sottolineare come il merito non abbia peso nelle sue decisioni, ma i suoi occhi possono talvolta apparire, significativamente descritti l’uno gioioso, sorridente, l’altro in lacrime. Collegata alla simbologia degli occhi c’è quella delle mani, per cui queste possono essere molte o differenziarsi l’una dall’altra: così come il viso va a dividersi in destra e sinistra, anche le mani operano separatamente, rispettivamente la destra in direzione del bene e l’altra verso il male. Questa particolare associazione destra-bene, sinistra-male si collega a tanta parte della cultura classica naturalmente assimilata e reinterpretata dalla cultura medievale: nel primo caso si collegava al moto apparente del Sole nel cielo, sorgente a est, a destra dell’orizzonte, per cui la via di destra era quella illuminata, lontana dall’errore, dal male appunto. Analogamente la cultura cristiana associa il sorgere del Sole, la presenza della luce, alla Luce divina, la Giustizia, l’infallibilità, il bene. Esempio particolarmente evidente lo abbiamo ancora in Dante, nei versi incipitari dell’Inferno: “[…] mi ritrovai per una selva oscura/ che la diritta via era smarrita/[…]” (Inferno, I, 2-3) e “[…] tant’era pien di sonno a quel punto/ che la verace via abbandonai/[…]” (Ivi, 11-12); qui, ancora sottolineando la mente estremamente sincretica del Poeta, la diritta come la verace via rappresentano lo stesso concetto: la “via di destra” come via del bene, declinato secondo la cultura cristiana o quella classica; non a caso, infatti, ponendo se stesso in antitesi con la figura di Ulisse (Inferno XXVI), Dante descrive il condottiero greco che procede “sempre acquistando dal lato mancino” (v. 126), procedendo quindi verso la perdizione.

Ancora, tornando alla descrizione della Fortuna, la troviamo spesso dotata di ali, sempre sospesa a mezz’aria. Anche la postura diventa significativa e simbolica per ciò che la dea rappresenta: che si trovi in piedi su una sfera o ancor più sulla sua ruota, è importante sottolineare l’instabilità e i continui cambiamenti cui essa capricciosamente si rivolge. Per quanto riguarda le sue vesti, queste naturalmente cambiano di Autore in Autore: per esempio Boccaccio, nel De casibus, la descrive di “mollisque cutis, roseus color, ac purpurea vestis”. Nel portamento e nelle maniere, così come nel volto, la Fortuna può apparire insieme gentile e scortese: il suo carattere rivela orgoglio, tendenza alla collera, malingnità. Nel dar corpo alla propria volontà è ingannevole e disonesta, profondamente invidiosa della prosperità umana, incostante e irrazionale. La sua caratteristica mutevolezza porta subito alla mente il paragone con la luna e la sua influenza sul moto delle maree, così come la slealtà richiama l’analogia con i serpenti o, meglio, con gli scorpioni.

Soffermiamoci ora sul principale simbolo associato alla dea Fortuna, la ruota, che rappresenta al contempo la variabilità, l’instabilità, il capriccio della divinità così come il controllo da questa esercitato sulle vicende umane. Ritroviamo la figura della ruota nelle più disparate varianti all’interno dei codici medievali, associata sì alla Fortuna ma che di per sé rimanda già a un campo semantico vasto: quello della velocità, dell’incessante procedere circolare dell’esistenza, del cambiamento, e ancora il Sole, la Terra, Dio, l’eternità. E’ probabile che questo tipo di simbolismo possa essersi legato alla Fortuna partendo dal concetto fondamentale di instabilità, per poi allargarsi e specializzarsi col procedere della cultura. L’immagine della Fortuna in bilico su una sfera risale all’iconografia della Roma antica e da qui proviene alla cultura medievale sempre fondandosi sull’instabilità degli eventi, ma non possiamo cogliere una vera e propria allegoria dell’attività e in generale della Fortuna come divinità finché la ruota stessa diventa simbolo di variabilità, eventualmente messa in moto proprio dalle mani della dea. Una prima connessione tra la divinità capricciosa e le sorti degli uomini emerge però per esempio in Ammiano Marcellino (Res gestae): “Fortuna volucris rota, adversa prosperis semper alternans”; o ancora in Seneca (Agamemnon): “Ut praecipites regum casus Fortuna rotat!”, dove sembra più specifica l’azione che la Fortuna compie nel “ruotare” gli affari umani in virtù dei propri poteri. Andando oltre, tra V e VI sec d.C., la ruota non è più considerata indipendentemente dalla dea; ancora nel De consolatione Philosophiae boeziano, l’idea che la Fortuna controlli i movimenti della ruota, che questa arrivi a simboleggiare il capovolgimento della realtà, che figure umane si trovino sulla ruota a seguirne le rotazioni frenetiche, è riportata come se fosse del tutto “familiare”, quindi un dato culturale consolidato, e così rimarrà a distanza di secoli, nonostante manchino quasi del tutto i riferimenti fino a Dante.

In realtà esisteva anche una ulteriore concezione del moto della ruota, ravvisabile nello Speculum Ecclesiae di Onorio d’Autun – il quale si rivela apperentemente debitore di una tradizione altrettanto consolidata –, per cui la Fortuna non ha alcun potere sulla ruota, anzi viene trascinata dai movimenti di questa, seguendo e soffrendo proprio come gli uomini i suoi rivolgimenti. Sulla base di queste considerazioni, si nota però facilmente come l’immagine della Fortuna che soffre se stessa, in balia del corso degli eventi così com’è scandito dalla ruota, non può essere direttamente riconducibile alla divinità, quanto piuttosto al tipo.

Quindi, ripartendo dalla fonte boeziana, nel Medioevo, sulla scorta dell’evoluzione della figura attraverso la classicità, la ruota era indissolubilmente legata alla Fortuna, che ne ha pieno controllo, causando così a suo capriccio veri e propri capovolgimenti non solo nelle vicende umane ma per l’umanità stessa: in questo senso, la ruota potrebbe rappresentare metaforicamente due concetti. Innanzitutto, il movimento potrebbe essere relazionato ai “doni” della Fortuna: così come la ruota gira, gli eventi e la vita cambiano, ma non sappiamo mai come, né con quale criterio – il che è riconducibile ancora all’aspetto fisico della dea, cieca o meglio ancora bendata. Ancora, il fatto che gli uomini stessi prendano parte al movimento della ruota segue l’idea che non solo le vicende ma anche gli stessi status umani possano cambiare improvvisamente: particolarmente significativa è in questo senso una delle tematiche legate alla simbologia della ruota, che vede in particolare quattro figure umane seguire il movimento circolare: un giovane incoronato e con uno scettro tra le mani seduto sulla cima della ruota; alla sua destra, un uomo che precipita, mentre la corona cade dalla sua testa; nella pare più bassa un uomo completamente prostrato; risalendo verso sinistra, di nuovo un giovane che cerca di arrampicarsi lungo la ruota, estendendo le braccia verso il giovane coronato sulla cima. Fungevano da “didascalie” agli uomini rappresentati rispettivamente le locuzioni: regno, regnavi, sum sine regno, regnabo; perciò la relazione tra l’umanità sulla ruota e il proprio status veniva espresso secondo una sorta di gerarchia che mirava probabilmente a riprodurre l’ordine sociale. E non è un caso che questa particolare tipologia iconica fosse estremamente diffusa e nota nella cultura medievale, così come non è un caso che si adatti precisamente all’ambiente delle taverne di cui prima si parlava: l’uomo che perde la corona, quello del tutto prostrato, quello che ambisce al potere sono tutti esempi di giocatori, che secondo la volubilità della Fortuna vincono, o più spesso perdono, ciò che hanno insieme al proprio status sociale, incarnazione della simbologia legata alla Fortuna e tramiti principali della stessa attraverso gli anni.

Entrambi i significati metaforici appena espressi implicano l’idea che il movimento della ruota possa non essere continuo, che questa possa fermarsi e poi riprendere il proprio corso: in realtà è difficile crederlo, come asseriva già Boezio, o se anche si potessero ipotizzare delle pause nei movimenti, la Fortuna, in quanto divinità, non necessariamente agisce sempre attraverso la ruota, sebbene questa sia il suo strumento principale. L’idea della continua dinamicità delle vicende umane ci è suggerita forse ancora più realisticamente dalle taverne stesse, che continuamente si trovavano a esser teatri di rivolgimenti sociali, tanto da far bandire il gioco dei dadi – ancora una volta facente parte della simbologia della Fortuna – proprio per questioni di ordine sociale: quasi impossibile pensare, in questo caso, per una mentalità e una cultura enciclopedica, organica, simbolica e così fitta di rimandi come quella medievale, a una soluzione diversa che non preveda l’intervento della Fortuna. Intervento che, ampliandosi oltre il dato contingente, rivolta tanto lo status sociale quanto i sentimenti dell’uomo: ognuno può singolarmente, moltiplicando il numero delle ruote, descrivere i propri rivolgimenti, le proprie ascese – e anche gli sforzi per godere più a lungo dell’ascesa: non bisogna dimenticare che l’uomo poteva in un certo senso “sfidare” la Fortuna per cercare di mantenere i vantaggi che gli erano pervenuti, concezione a cui forse si può far risalire il detto proverbiale che la Fortuna aiuta gli audaci – e discese, fino a quella primaria, il percorso che va dalla vita alla morte, quel circolo della vita che tanto si avvicina alla simbologia della ruota della Fortuna, che davvero non può che assumere una fondamentale importanza nel pensiero ma anche nella praticità dell’uomo.

Abbiamo fin qui ricostruito una sorta di percorso storico della figura della Fortuna e le sue caratteristiche e simbologie principali. Concentriamoci ora, invece, su quale potesse essere la concezione della Fortuna per Arnaut Daniel, così come possiamo desumerla dai suoi studi in primis e dall’opera sua e degli altri trovatori per lui auctoritates o contemporanei.

Partiamo dalla formazione: in quanto escolier che amparet ben letras, Arnaut aveva letto e conosceva sicuramente a fondo per lo meno quegli auctores, sia pagani che cristiani, normalmente inseriti nei canoni, nei programmi scolastici. Considerando che l’attività poetica del trovatore perigordino viene abbastanza concordemente situata tra gli anni 1180-1200 circa, e di conseguenza la sua nascita non dovrebbe essere anteriore agli anni tra il 1150 e il 1160, vediamo i canoni scolastici di auctores del XII sec., in particolar modo quelli della seconda metà del secolo, “riformati” e notevolmente ampliati rispetto ai precedenti (Curtius, 1995): se entro la prima metà – secondo un elenco riportato da Corrado di Hirsau – autori già rilevanti nell’elaborazione dell’idea di Fortuna in Arnaut erano già Boezio, Isidoro, Virgilio, Cicerone e Ovidio, bisogna però sottolineare che degli ultimi due venivano letti per lo più solo il De amicitia e il De senectute e i Fasti e le Epistulae ex Ponto. Se guardiamo invece a un elenco – attribuito ad Alessandro Neckman – di meno di mezzo secolo più tardi, troviamo il più probabile fondamento per la concezione arnaldiana: il repertorio ovidiano è notevolmente ampliato (quindi probabile è anche l’inclusione dei Tristia, prima citati) così come quello ciceroniano (fondamentale in questo senso è l’adozione come testo scolastico anche del De officiis); figurano nuovamente anche Isidoro, Boezio e Virgilio accanto ad altrettanto importanti inclusioni come l’Anticlaudianus di Alano di Lilla e l’opera di Seneca (sia morale che tragico, allora e ancora per Dante considerati due autori distinti) e di Plinio il Vecchio. Naturalmente gli elenchi riportati sono ancora piuttosto riduttivi rispetto al repertorio realmente disponibile e studiato, a cui i letrat avevano accesso, fitto anche di scrittori più contemporanei, tra cui particolarmente importante, non iscritto negli elenchi ma certamente già auctoritas, è Pietro Abelardo.

Possiamo quindi ragionevolmente supporre che, sulla base di questi auctores già citati ed esaminati precedentemente, Arnaut Daniel conoscesse la Fortuna come divinità capricciosa che fa girare la propria ruota rivoltando lo svolgimento degli affari mondani: un’immagine nitidissima in Canso do ill mot son plan e prim, vv. 20-24: […] qu’ades trabuca son senhor/ del luec aussor/ bas el terralh/ per tal trebalh/ que de joi lo despuelha […], in probabile riferimento, insieme alla frequentazione delle taverne, all’iconografia della ruota più diffusa precedentemente descritta, dove l’alternarsi dei destini umani è simboleggiato nelle locuzioni regno – regnavi – sum sine regno – regnabo. La dea si trova però spesse volte confusa con la personificazione dell’idea generica di “buona fortuna”, esattamente come per gli Autori cristiani che integravano le caratteristiche paganeggianti con la dipendenza da Dio. Ulteriore conferma di ciò viene dalla grande diffusione, tra le generazioni trovadoriche e nella letteratura di area francese in generale, del concetto di Aventura, sostanzialmente sinonimo di Fortuna, anche se più spesso associato proprio con la personificazione piuttosto che con la dea vera e propria: nell’opera di Arnaut non troviamo ricorrenze del termine – ne troviamo però di un altro strettamente collegato, l’escarida (in Anc ieu non l’ac, vv. 6-11: […] Amors comanda/ qu’om la serv’e la blanda:/ per qu’ieu n’aten/ sufren/ bona partida/ quan m’er escarida […]; e in ripresa intratestuale in Quan chai la fuelha, vv. 21-24: […] no sai de re/ coreillar m’escarida,/ que per ma fe/ del mielhs ai ma partida […]), il destino, anche nell’accezione più ampia di “corso degli eventi”, quindi controllato dai rivolgimenti di Fortuna – mentre aventura ricorre spesso in un contesto che possiamo certamente definire “arnaldiano”, in particolare in Marcabru, Bernart de Ventadorn, Raimbaut d’Aurenga e Arnaut de Maroill.

Nella grande maggioranza dei testi in cui si verifica l’occorrenza prevale l’identificazione della dea con la personificazione del concetto di “buona fortuna”, come possiamo notare nei seguenti esempi:

Marcabru (293, 28, cobla III, vv. 17-21):

“[…]per qu’ieu no·m planc mon dampnatge?

Qu’aitals es ma destinada

que Joys e Bon’Aventura

mi tolh un pauc de rancura

que m’es ins el cor assiza […]”

Qui, oltre l’evidente personificazione – anche se le lettere capitali sono del tutto arbitrarie, in quanto nei codici non si trovano se non in rarissimi casi – è importante sottolineare come la canzone di Marcabru sia vicina sempre a Quan chai la fuelha proprio per il suo essere “canzone invernale”, in cui il poeta sottolinea la continuità del suo canto nonostante la mancanza di vita nella natura: “[…]Ara perdon l’alegragge/ pel frey e per la gilada,/ mas ieu ai pres tal uzatge/ totz jorns chant […]” (sempre Lanquan foillon le boscatge, vv. 7-10).

Bernart de Ventadorn (70, 13, cobla II, vv. 10-18):

“[…] domna, […]

ab vos remanh et ab vos vau.

e sapchatz que de vos me lau

assatz mais que no sai grazir.

be conosc que mos pretz melhura

per la vostra bon’aventura;

e car vos plac que·m fezetz tan d’onor

lo jorn que·m detz en baizan vostr’amor,

del plus, si·us platz, prendetz esgardamen!

Notiamo in questa canzone ancora un importante riferimento all’inverno, anche se molto più metaforico, come ai vv. 3-6: “[…]Eras, pus negus no s’esjau/ E pretz e donar vei morir,/ No posc mudar no prenha cura/ D’un vers novel a la frejura […]”, oltre – come ulteriori motivi comuni all’opera arnaldiana e non solo – il motivo del premio da parte della donna, il baizar che anche Arnaut chiede in Ab gai so per restaurar ‘l maltrait.

Bernart de Ventadorn (70, 24, cobla II, vv 9-16):

Ges d’un’amor no·m tolh ni·m gic,

don sui en bon’aventura

[…]

car sui tengutz per fin amic

lai on es ma volontatz;

que […]

(ni) d’autra no sui en cura […]”

Ancora un testo importantissimo e senza dubbio vicino a Quan chai la fuelha: in questi versi sembra realizzarsi, a livello di nostra traduzione, l’identificazione, o quanto meno lo strettissimo legame, tra aventura ed escarida. Bernart de Ventadorn si dice in questa canzone en bon’aventura, dunque fortunato, proprio perché è fin amic proprio per colei che lui stesso ama e per tal ragione non si cura delle altre donne, sequenza che ritorna anche nei versi arnaldiani sopra citati: “[…] no sai de re/ coreillar m’escarida/ que per ma fe/ del mielhs ai ma partida […]” (vv. 21-24) e ancora, più avanti, “[…] autrui paria/ trastorn en reirazar […]”, formula quest’ultima ancora una volta non dimentica tanto del concetto di Fortuna, quanto del vizio del gioco proprio di Arnaut, come sarà specificato più avanti.

Bernart de Ventadorn (70, 30, cobla VI, vv. 36-42):

Pero ben es qu’ela·m vensa

a tota sa volontat,

que, s’el’a tort o bistensa,

ades n’aura pietat;

que so mostra l’Escriptura:

causa de bon’aventura

val us sols jorns mais de cen […]”

Significativi anche questi ultimi versi, in quanto ritornano motivi legati alla poetica arnaldiana: intanto che il poeta sia vinto del tutto dall’amata (“[…] ‘l sieu cors sobretrasima/ lo mieu tot e non s’aisaura:/ (tan) n’a de ver fag renueu […]” per citare un esempio in Ab gai so); ancora, già dall’incipit della canzone di Bernart, la mutevolezza delle circostanze contingenti (ancora una volta motivo questo legato al moto della ruota della Fortuna); i riferimenti, nel corso di tutto il componimento, al gioco e all’escola: anche nei versi citati, l’Escriptura – di nuovo la maiuscola è arbitraria dell’editore, Appel, 1915 – più che alla Sacra scrittura potrebbe forse essere riferita, proprio per la presenza stessa dell’escola, pochi versi addietro, ai testi degli Auctores studiati a scuola, in particolare, forse, gli stessi che abbiamo già visto significativi anche nella formazione di Arnaut (Isidoro, Boezio, Abelardo).

Ma per completare la definizione del concetto arnaldiano di Fortuna è necessario considerare intanto la già evidenziata concezione goliardica, ma anche e soprattutto l’ambito d’indagine più tecnico proprio della trattatistica. Facciamo in questo caso riferimento al Libro de los juegos commissionato da Alfonso X El Sabio: la bontà del riscontro parte da una quasi identità a livello di locuzione così, come prima si diceva, come la ritroviamo ancora una volta in Quan chai la fuelha, vv. 25-28: De drudaria/ no m sai de re blasmar,/ qu’autrui paria/ trastorn en reirazar […]. In particolare l’ultimo verso ha generato diverse discussioni riguardo la sua interpretazione, specie in ragione della totale diffrazione della tradizione manoscritta al riguardo: la canzone è riportata complessivamente in quattro manoscritti (C, E, a, ψ), con le lectiones che variano da Torn ieu en razonar in C, a Terra tornen reizarar in E, fino a Tron torn a reirazar in a e Torn en reire azar in ψ. Trastorn, come chiarisce Eusebi, è congettura di Bartsch: si tratta però di un termine senza ulteriori riscontri nella lirica occitanica, se non come hapax arnaldiano. Più plausibile sarebbe invece la lectio di ψ, sulla quale si potrebbe congetturare ulteriormente rendendola Se torn en reirazar, proprio facendo riferimento al Libro de los juegos, in particolare al passo, nel Libro de los dados, dedicato all’azar, il più diffuso gioco coi dadi:

“[…] Otra manera hay de juego que llaman azar, que se juega en esta guisa. El qui primero oviere de lançar los dados, si lançare quinze puntos o dizeséys o dizesiete o dizeocho o la soçobrasd’estas suertes, que son seys o cinco o quatro o tres, gana.E qualquiere d’estas suertes […] es llamad<a> azar. E si por aventura no lança ninguno d’estos azares primeramientre e da all otro por suerte una d’aquellas que son de seys puntos a arriba o de quinze ayuso […] e depués d’estas lançare alguna delas suertes que aquí dixiemos que son azar, esta suerte será llamada reazar e perderá aquel que primero lançare. E otrossí, si por aventura no lançare esta suerte que se torna en reazar […] converná que lançen tantas vegadas fasta que venga una d’estas suertes […]”.

La semi-identità di locuzione connota perciò il verso arnaldiano nel preciso contesto del gioco, certamente non sconosciuto al trovatore. Ma è importante proseguire nell’analisi generale del Libro alfonsino per inquadrare il significato più ampio del gioco e del malastre in un contesto che è successivo a quello di Arnaut Daniel – infatti il Libro de los juegos è stato completato, come risulta dall’explicit del codice, nel 1283 – ma certamente non dissimile da quello proprio del trovatore perigordino.

Intanto, per quanto riguarda le notizie più generali, un concetto basilare nel trattato commissionato da Alfonso X è l’alegria, il sentimento di origine divina che è al centro di ogni esperienza ludica, da essa generato e in essa da ricercare. I giochi, al di là di questo dato comune, si differenziano in tre tipologie ampie: quelli che si svolgono a cavallo, quelli in piedi e quelli da seduti; al re Sabio interessano particolarmente questi ultimi perché possono esser praticati da tutti, e hanno pertanto una maggiore rilevanza e utilità sociale. Le sette parti in cui il trattato si divide (scacchi; dadi; tavole; varianti aumentate di scacchi, dadi e tavole; scacchi e tavole delle quattro stagioni; alquerques; scacchi e tavole astrologiche) sono legate da una cornice con funzione coesiva in cui si racconta una storia cui si allude all’inizio di ognuna delle parti: un re indiano – il quale, nell’ottica complessiva dell’opera, va identificato con Alfonso X stesso – aveva proposto a tre sapienti di riflettere su cosa valesse maggiormente tra Fortuna (Ventura, di nuovo) e Intelligenza (Seso). Uno si schiera dalla parte dell’Intelligenza e porta come prova gli scacchi, il secondo dalla parte della Fortuna provando la propria posizione con i dadi, il terzo sceglie una posizione intermedia, sostenendo l’importanza di entrambe, con le tavole, che rappresentano appunto l’unione degli scacchi e dei dadi.

Per quanto riguarda i dadi, che qui maggiormente ci interessano, bisogna immediatamente rilevare come con ogni probabilità questi non fossero ritenuti consoni a un sovrano: nelle miniature presenti nel pregevole codice del Libro, infatti, il sovrano non è mai raffigurato mentre gioca ai dadi. Rimanendo sempre nell’ambito grafico, è importante anche notare come le miniature abbiano un ruolo centrale nell’ottica complessiva del trattato, in quanto rappresentano la totalità sociale accomunata dall’alegria; importante è anche la similiarità rilevata con alcune miniature del Codex buranus che riportano, nell’ordine, tre scene di giochi di dadi, tavole e scacchi, seguendo perciò un ordinamento differente rispetto alla sistemazione del trattato ma non senza ragione riflettendo sulla centralità dei dadi nei Carmina Burana.

Protagonisti del gioco ai dadi nel codice del Libro de los juegos, se non il re, sono invece, più generalmente, i tafures – ovvero coloro che frequentan les cases de joc, jugadores, tablajeros – con altri personaggi di bassa condizione sociale o con i cavalieri rimasti nudi per aver perso tutto al gioco: per questa ragione, i giochi con i dadi sono i meno nobili fra quelli descritti nel trattato, seppure occupino un volume non indifferente, necessariamente da ricondurre, sebbene non fossero il fenomeno di costume più rilevante, alla grandissima diffusione di questa tipologia ludica negli ambienti tabernari e non solo, diffusione contrastata come ben sappiamo da continui divieti per evitare quegli sconvolgimenti sociali che i rivolgimenti di Fortuna, le perdite e le vincite portavano; ma non solo: i dados, esaminati con reale minuzia, quasi scientifica, fanno da collante tra la sezione degli scacchi e quella delle tavole che appunto fonde le due precedenti. Anzi, pare proprio che i tafures stessi abbiano fortemente voluto l’inclusione del Libros de los dados nel trattato alfonsino, così come questi avrebbero pressato Alfonso X per la redazione dell’Ordeniamento de las tafurerias, il codice giuridico che affrontava le questioni sul gioco d’azzardo; questi stessi personaggi ricorrono inoltre in diversi luoghi delle ugualmente alfonsine Cantigas de Santa Maria, in cui l’alegria su cui i giochi si fondano diventa tafureria, aborrita dalla Vergine. Da un’ulteriore opera commissionata dal Sabio emerge poi un dato importantissimo anche per la concezione di Arnaut Daniel, nostro principale motivo d’indagine: nell’Astromagia, infatti, la propensione al gioco è indicata come derivante dalle stelle, che diventa mal-astre nel caso del trovatore, sicuramente più ampiamente funzionale nel quadro complessivo della sua poetica e della concezione d’amore, come vedremo in seguito.

Perciò comprendere a pieno la simbologia legata ai dadi è importante per correttamente indagare tanto l’ideologia alfonsina quanto le metafore ludiche in contesti squisitamente letterari e metalinguistici come quelli di Arnaut. Dai dadi e in virtù dei dadi lo sguardo si allarga pertanto al progetto fondante il Libro de los juegos e ai rapporti tra le sue parti: il sistema dei giochi nel suo complesso è strumento, infatti, dell’intenzione di rappresentare in maniera totalizzante il mondo e il cosmo. In quest’ottica, scacchi e dadi sono i vertici opposti del sistema-cosmo che entrano in contrasto: i primi – che in un’ottica moraleggiante, non presente nel trattato alfonsino, pongono in relazione pezzi e mestieri o classi sociali – espressione della razionalità pura che esclude ogni intervento del caso, i secondi in antitesi perfetta. Si tratta di una contrapposizione più ampia, fondante per i sistemi filosofici e in generale nel pensiero e nella morale umana, quella tra predestinazione e libero arbitrio, tra necessità e caso, tra Sapientia e Fortuna, appunto tra Seso e Ventura, come nella cornice del Libro – a tal proposito, interessantissima è ancora una miniatura in un codice di Cambridge, dove la Fortuna da un lato indica la propria ruota con le parole: “Mundana casu aguntur omnia”, mentre la Sapienza dall’altro: “Nichil in mundu fit casu” – per la quale il trattato stesso ristabilisce una sorta di procedimento dialettico in cui scacchi e dadi rappresentano rispettivamente tesi e antitesi, mentre la sintesi vera arriva con le tavole, parte questa che dunque è la più importante, come punto d’arrivo, e che molto dice dell’attitudine alla mediazione del re Sabio, comprensibilmente a questo punto identificabile col re indiano della novella della cornice. Le tavole rappresentano dunque la possibilità di influsso razionale sul destino (il faber non in senso letterario ma generale, quello di un secolo e mezzo dopo) che non può non tenere in conto i rivolgimenti di Fortuna: non a caso, dunque, il trattato termina con le Tables que se juegan por astronomia, tavole di mediazione tra Seso e Ventura, in cui è importantissima anche – ed ecco ancora preponderante uno degli interessi di Alfonso X – l’influenza astrale sui destini umani.

E proprio su questa base, sulla rappresentazione della Fortuna, ha preso avvio questa ricerca. Attraverso il termine malastruc è possibile infatti istituire un filo conduttore ulteriore tra Raimbaut d’Aurenga e Arnaut Daniel: il conte d’Orange rappresenta sicuramente uno degli auctores del trovatore perigordino, e di ciò abbiamo una prima testimonianza dalle vidas di entrambi i trovatori: Arnaut Daniel che […] delectet se en trobar […] e pres una maniera de trobar en caras rimas […] così come Raimbaut d’Aurenga […] fo bons trobaires de vers e de chansons; mas mout se entendeit en far caras rimas e clusas. Ma non solo: dall’analisi del testo della vida di Arnaut e della chansò sopra proposta di Raimbaut, i due trovatori sono accomunati anche dal malastre in amore, malastre che ha un antecedente anche in Lanquan li jorn son lonc en mai di Jaufre Rudel (BDT 262,2), precisamente nei versi finali […]Mas so qu’ieu vuelh m’es atahis,/ qu’enaissi·m fadet mos pairis/ qu’ieu ames e non fos amatz. Infatti, il conte d’Orange si rivolge all’amata dicendole […] Dompna, per vos sui malastruc, car per malastre·m voletz mal […] mentre dalla vida di Arnaut Daniel sappiamo che […] amet una auta domna de Gascoigna […] mas non fo cregut que la domna li fezes plaiser en dreit d’amor; per qu’el dis – nella tornada di Ab gai so cuindet e leri –: Ieu sui Arnautz qu’amas l’aura/ e cas la lebre ab lo bueu/ e nadi contra suberna.

Il trovatore perigordino è però legato al malastre anche nello scambio tenzonesco di sirventesi tra Raimon de Durfort, Truc Malec e Arnaut stesso, per cui Raimon de Durfort scrive Pus etz malastrucx sobriers/ non es Arnautz l’escoliers,/ cui coffondon dat e tauliers, parlando perciò del malastre più goliardico, legato al gioco d’azzardo. Riflettendo sulle occorrenze dei termini astruc e malastruc nelle varie forme è forse interessante sottolineare come i generi poetici in cui questi ricorrono maggiormente siano proprio canzoni, sirventesi (anche, nel caso di Bertran de Born, il sirventes joglarescMailoli, joglar malastruc”), tenzoni, planh, albas, dove maggiormente l’attenzione ricade sul poeta, e conseguentemente sull’attività poetica in sé, che sia un giullare o che componga per la propria donna: infatti e piuttosto evidentemente, tornando alla chansò di Raimbaut d’Aurenga, l’insistenza sul termine malastruc o sull’astratto malastre – che oltretutto costituisce una parola-rima che lega i versi iniziali di tutte le coblas, mentre gli altri sono a rima unica – sta forse a denotare, oltre a una nota di scherno nei confronti del codice cortese ravvisabile in altri luoghi della produzione del conte d’Orange, una specificità più squisitamente letteraria, un sottolineare la coscienza della particolarità del proprio operato, come per i versi […] Mas non trob malastruc valen/c’a me de malastre·s prezen […] oppure […] E fis ben malastruc jornal,/ c’anc nuills malastrucs no·l fetz tal! […]. Tra l’altro, nello stesso testo, ricorrono le voci trop, trob, atrobes, qui traducibili col verbo trovare, ma che potrebbero anche equivocare col trobar vero e proprio. Della stessa coscienza si potrebbe naturalmente parlare per Arnaut Daniel, miglior fabbro del parlar materno – e sull’attività fabbrile la stessa già citata Ab gai so cuindet e leri è parecchio eloquente – proprio per la grande consapevolezza del proprio mestiere, che lo porta a sperimentare forme, stili e modi di trobar fino alla sestina. Un simile gioco letterario fondato sull’insistenza su un solo termine si ritroverà, infine, anche nella poesia italiana successiva, trovando alcuni esempi in Giacomo da Lentini (Eo viso – e son diviso – da lo viso, sonetto IX), Guittone d’Arezzo (Tuttor ch’eo dirò gioi, gioiva cosa), Panuccio del Bagno (Sovrapiagente gioia gioiosa), Guido Cavalcanti (Pegli occhi fere un spirito sottile).

Tornando ancora su Ab gai so cuindet e leri, perciò sull’attività fabbrile, artigianale, metaforica del trobar, e soprattutto di come questa sia un unicum con la concezione d’amore e il gioco, la fortuna nella taverna, è possibile citare ancora un componimento di Arnaut Daniel (BDT 29,1 – ne L’aura amara a cura di M. Eusebi è il componimento XIV) in cui egli stesso si definisce astruc, ma ancora non amatz:

Amors e jois e luecs e temps

mi fan tornar lo sen en derc

d’aquel joi* qu’avia l’autr’an

qan chassava lebr’ab lo bou:

ara’m va meils d’Amor e pieis,

car ben am, d’aizo’m clam astrucs;

ma Non-Amatz ai nom anquers

s’Amors no venz son dur cor e’l mieus precs.

Cel que totz bes pert a ensems,

mestiers l’es qe ric seignor cerc

per restaurar la perd’e’l dan,

qe’l paubres no’il valri’un ou:

per zo m’ai eu chauzit en leis

don non aic lo cor ni’ls oils clucs,

e pliu’t, Amors, si la’m conqers,

trevas tostemps ab totas fors dels decs.

Pauc pot hom valer de joi sems;

per me’l sai que l’ai agut berc,

car per un sobrefais d’afan

don la dolor del cor non mou

-e s’ab joi l’ira no’m foreis…-

tost m’auran mei paren faducs;

pero tal a mon cor convers

q’en leis amar volgra morir senecs.

Non sai om tan si’en Dieu frems,

ermita ni monge ni clerc,

com ieu sui seleis de cui chan,

e er proat anz de l’annou;

liges sui seus meilz qe demeis,

si’m for’eu si fos reis o ducs:

tant es en lieis mos cors esmers

qe s’autra’n voil ni’n deing donc si’eu secs.

D’aizo c’ai tant duptat e crems

creis ades e meillur e’m derc,

que’s reproers c’auzi antan

me dis que tan trona tro plou;

e s’ieu mi pec cinc anz o seis,

ben leu, can sera blancs mos sucs,

jauzirai zo per qu’er sui sers,

c’aman preian s’afranca cor ufecs.

De luencs suspirs e de grieus gems

mi pot trar cella cui m’aerc

c’ades sol per un bel semblan

n’ai mogut mon chantar tot nou.

Contramon vauc e no m’encreis,

car gent mi fai cujar mos cucs.

Cor, vai sus! ben fas si’t suffers:

sec tant q’en leis c’as encubit no’t pecs.

Ans er plus vils aurs non es fers

c’Arnautz desam leis ont es fermanz necs.

* D’obbligo una precisazione: Eusebi accoglie a testo la lectio joi, specificando nella nota sottostante: “[…] le correzioni proposte (Canello noi, Lavaud – e Toja – fol) non persuadono: si deve forse intendere “giogo” nel senso di tormento”. In realtà – considerando che nella stragrande maggioranza delle occorrenze nella lirica trobadorica joi è sempre il joi, l’aspirazione massima di ogni poeta – forse entrambe le congetture contestate potrebbero essere accolte a testo, in particolare quella proposta da Lavaud poi ripresa anche da Toja, tenendo presente che l’antitesi ben amar e follia è piuttosto frequente, comunque salda, quasi proverbiale, e che si potrebbe citare in questo senso ancora una canzone arnaldiana, Ans que sim reston de branchas, che costituisce, insieme a quella appena proposta e ad Ab gai so, una sorta di miniciclo interno all’opera del trovatore perigordino, come si vedrà chiaramente più avanti.

Iniziamo dalle caratteristiche formali del componimento e dalla sua tradizione: il testo compare nei manoscritti T, a e ψ, nel quale però mancano le prime due coblas. La struttura metrica è tipicamente arnaldiana: 6 coblas dissolutas unissonans più la tornada; i versi di ogni cobla sono tutti maschili – tranne il quinto, il cui timbro rimico è -eis – e ottosillabi tranne l’ultimo, che è invece un decasillabo (anche queste due tipologie di versi sono tra le più utilizzate da Arnaut). L’analisi puntuometrica ci suggerisce inoltre che probabilmente, nonostante la struttura dissolutas, è possibile identificare nuclei sintattici interni, suggeriti dalla struttura – a distico – della tornada e poi, appunto dalla punteggiatura. Di seguito la sintesi dei valori:

I c.

II

III

IV

V

VI

Somma

1°v.

1

2

1

4

1

1

1

3

1

1

2

2

2

2

2

3

11

1

3

1

1

1

5

2

1

2

2

1

3

11

1

1

2

4

3

3

3

3

3

3

18

Quindi la punteggiatura suggerisce una ripartizione interna, pur non evidenziata da diesis, delle coblas secondo lo schema 4+2+2, dove l’ultimo distico è proprio quello indicato dalla tornada, così come, leggendo il testo, anche lo svolgimento stesso dell’argomentare del trovatore.

Altro importante ambito di riflessione è ancora la rarità delle rime: la vida ce ne informa immediatamente presentando le caras rimas come elemento distintivo della poesia di Arnaut, evidentissimo, oltre che naturalmente nella scelta dei timbri, nelle sue costruzioni testuali, nei meccanismi di permutazione interni alle coblas, che andranno perfezionandosi negli anni fino alla massima sublimazione della sestina, a scandire un percorso in cui il trovatore perigordino ci dimostra, e ne è egli per primo estremamente cosciente, di “avere” davvero obrador e taverna (Ab gai so, v.28). Dunque ciò vale anche per Amors e jois e temps e luecs: da una breve ricerca della frequenza dei timbri rimici della canzone, quasi tutti sono poco frequenti, anzi caratterizzati in maniera piuttosto particolare, decisamente non casuale nella coscienza ed elaborazione poetica e metaletteraria di Arnaut Daniel. L’unica più frequente – con 1184 occorrenze, pari a poco più dell’1% nell’intero corpus trobadorico – è la rima in –ers (v. 7 di ogni cobla); ancora una frequenza più alta rispetto alle altre si registra per la rima in –an (v.3), contando 257 occorrenze all’interno delle quali è però necessario distinguere tra an nome (l’anno) e an voce verbale (terza persona plurale del presente indicativo del verbo avere), notando come le voci verbali siano nettamente più frequenti del nome che qui ci interessa. Molto minori le altre frequenze:

em(p)s (v.1) conta 43 occorrenze, delle quali 9 solo arnaldiane – riferite a questa canzone e ad Autet e bas entre·ls prims fuelhs – mentre le altre sono soprattutto riferibili a Giraut de Bornelh, Marcabru e Raimbaut d’Aurenga;

erc (v.2) conta ancora 43 occorrenze, tra le quali, oltre quelle arnaldiane, se ne trovano ancora di Giraut de Bornelh, Raimbaut d’Aurenga e soprattutto di Gavaudan;

-ou (v.4) conta 29 occorrenze, 9 arnaldiane e le altre ancora di Raimbaut d’Aurenga, Raimbaut de Vaqueiras e Raimon de Miraval;

-eis (v.5) conta 129 occorrenze, la maggior parte delle quali riferite a tre testi di Bertrand de Born: A! Lemozin, francha terra cortesa, Nostre Seigner somonis el meteis, S’abrils e foillas e flors (ed. Gouiran, 1985);

-ucs (v.6), questo forse il risultato più significativo e interessante, conta 45 occorrenze utilizzate esclusivamente da Arnaut e Marcabrù;

-ecs (v.8) conta infine 28 occorrenze, di cui 7 arnaldiane (questo timbro è utilizzato solo in Amors e jois).

Riflettendo sui risultati appena proposti, salta immediatamente all’occhio come la presenza degli auctores arnaldiani non sia affatto casuale: in particolare la ripresa dei timbri rimici di Raimbaut d’Aurenga e di Marcabrù si definisce probabilmente come precisa dichiarazione di poetica, ripresa consapevole per delineare e mostrare anche il proprio status poetico proprio e soprattutto nell’artigianalità, nell’aspetto più importante del suo esercizio. Valgono a dimostrare ciò i tanti richiami intratestuali presenti nella sorta di miniciclo – come prima si diceva – di cui Amors e jois e temps e luecs fa parte insieme ad Ab gai so cuindet e leri – che la precede – e Ans que sim reston de branchas, a seguire: l’aspetto fabbrile del trobar non è qui esplicitamente calcato – sebbene il trovatore insista sulla creazione poetica: “n’ai mogut un chantar tot nou” (v.44) e anche “farai, c’Amors m’o comanda,/breu chanson de razon lonia,/ que gen m’a ducx de las artz de s’escola” in Ans que sim reston de branchas, vv. 3-5 – ma vale e resta fondamentale nella linea tematica che complessivamente ne viene fuori, a disegnare Arnaut uomo e poeta indissolubilmente legati, che compie un percorso, appunto umano – affrontando le vicende della propria vita, soprattutto l’abbandono della vita ecclesiastica, l’assunzione dello status di clericus vagantes, i colpi avversi della Fortuna – e insieme poetico – l’amore infelice e tormentato per una donna sdegnosa che fa cassar lebr’ab lo bou e amassar l’aura ma che al contempo stimola il comporre e soprattutto l’obrar e il limar, ancora una volta memori tanto dell’ “officina” di Guglielmo IX sia della rimeta prima del conte d’Orange – alla ricerca di quella maestria e quella perfezione che gli varranno sia la fama di trovatore delle caras rimas di cui ci parla anche la razo di Anc ieu non l’ac sia la fortemente ambita dignità dell’uomo nuovo, dopo la perdita al gioco, che cerca proprio in virtù della propria cultura e dei propri motz de valor il vertice della società che vive, in continua evoluzione, l’ambiente esclusivo dell’elaborazione culturale e ideologica della classe dirigente. All’interno di questi richiami intratestuali possiamo dunque ravvisare il nucleo tematico fortissimo di un amore incondizionato, espresso di contro attraverso metafore economiche che allo stesso tempo sottolineano anche la rinuncia ai beni mondani in favore del sentimento che eleva e raffina; amore egualmente incondizionato che si sottopone alla sofferenza fisica e l’annulla, anzi dalla prova si rafforza; infine un amore irrealizzabile ma che non può fare a meno di continuare a esistere, che trova la propria espressione così eroica nella tornada di Ab gai so, quei versi – secondo la felice definizione di Eusebi, la vera “divisa poetica di Arnaut” – che riecheggiano nella vida, persino nella strofa satirica del Monge di Montaudon e naturalmente negli altri componimenti qui indicati. Riassumiamo brevemente di seguito i principali richiami intratestuali:

L’amore attraverso la metafora economica e la rinuncia alla mondanità

Ab gai so cuindet e leri

Amors e jois e temps e luecs

Ans que sim reston de branchas

[…]sieu so del pe tro qu’al cima […]

[…]mais l’am que qui m des Luzerna*[…]

[…]no vuelh de Roma l’emperi/ni qu’om m’en fassa postoli/qu’en leis non aia revert […]

[…] e si l maltrait no m restaura/ab un baizar anz d’annueu[…]

[…]piegz tratz, aman, qu om che laura/qu’anc non amet plus d’un hueu/selh de Moncli Audierna[…]

[…]Cel qe totz bes pert a ensems/mestiers l’es que ric segnior cerc/per restaurar la perd’e l dan/qe l paubres no il valri’un ou […]

[…] Sieus es Arnautz del sim tro en la sola/e no vuelh ges ses lieis aver Lucerna/

ni l senhoriu del renc on cort Ebres […]

*(qui la maiuscola è, come sempre, arbitraria dell’editore, ma occorre sottolineare, oltre il più ovvio riferimento alla conquista della città, anche l’equivocatio possibile con Dio, visto il tono generale della cobla, la III, in cui il verso si trova)

L’amore che si sottopone a sofferenza fisica e la annulla

Ab gai so cuindet e leri

Amors e jois e temps e luecs

Ans que sim reston de branchas

[…] ges pel maltrag que n soferi/de ben amar no m destoli[…]

[…]tot jorn melhur e esmeri[…]

[…] e si tot venta ill freg aura/l’amor qu’ins el cor mi plueu/mi ten caut on plus iverna[…]

[…]Pauc pot hom valer de joi sems/per me l sai che l’ai agut berc/car per un sobrefais d’afan/don la dolor del cor non mou[…]

[…]non sai om tan si’en dieu frems/ermita ni monge ni clerc/com ieu sui seleis de cui chan/e er proat anz de l’annou[…]

[…]Contramon vauc e no m’encreis[…]Cor, vai sus! ben fas si t suffers:/sec tant q’en leis c’as encubit no t pecs[…]

[…]tant en lieis mos cors esmers[…]

[…]creis ades e meillur e m derc […]

[…]S’ieu n’ai passatz pons ni planchas/per lieis, cujatz qu’ieu m’en duelha?[…]

[…]<tu, qu’alhors non t’estanchas […] totz plaitz esquiv’e desmanda […] que s clama folh qui se meteis afola[…]>*

[…]be m vai d’Amor, que m’abrassa e m’acola,/e no m frezis freitz ni gels ni buerna[…]

*Un altro richiamo forte in questo caso è ancora alla già citata Quan chai la fuelha: […]no sai de re/coreillar m’escarida/que per ma fe/de mielhs ai ma partida./De drudaria/no’m sai de re blasmar,/qu’autrui paria/trastorn en reirazar[…] (vv.21-28). Da qui e in questo senso vale, a mio parere, l’accoglimento a testo della lezione fol rispetto a joi al v.3 di Amors e jois.

La “divisa poetica di Arnaut”

Ab gai so cuindet e leri

Amors e jois e temps e luecs

Ans que sim reston de branchas

[…] Ieu sui Arnautz qu’amas l’aura/e cas la lebre ab lo bueu/e nadi contra suberna.

[…]qan chassava lebr’ab lo bou

[…]tan sai que l cors fas restar de suberna/e mos buous es pro plus correns que lebres[…]

Il malastre amoroso così come si evince dagli esempi appena riportati – malastre che però evolve poi fino a cambiare completamente di segno – ci rimanda sì a un’altra sfortuna egualmente danielina, quella al gioco, ma ricollegandosi di nuovo al testo di Raimbaut d’Aurega in testa alla scheda, anche lui malastruc d’amor, torna ancora in Amors e jois, con un ampliamento significativo: […]car ben am, d’aizo’m clam astrucs;/ma Non-Amatz ai nom anquers[…]. Arnaut dunque chiama se stesso e si presenta come Astrucs Non-Amatz: una contrapposizione netta tra Amore e Fortuna, l’uno nemico dell’altra, in continua lotta, contrapposizione ben nota e attestata nella letteratura medievale, come abbiamo già visto in precedenza. Ma Astruc è anche “a prænomen used frequently by Jews in southern France and eastern Spain; used to this day as a family name in France” (R. Gottheil): basilare, dunque, anche la relazione con l’onomastica ebraica, che gli Ebrei stessi hanno acquisito, in Catalogna, durante il periodo della conversione. E non è forse un caso, proprio a proposito di quest’ultima, che, pochi versi più avanti, anche il cuore di Arnaut si “converta” a lei: […]pero tal a mon cor convers/q’en leis amar volgra morir senecs; e la nuova fede appare quasi più integra di quella di eremiti, monaci e chierici: Non sai om tan si’en Dieu frems,/ermita ni monge ni clerc,/com ieu sui seleis de cui chan[…]; ancora, continuando sull’intratestualità, si possono citare l’intera III cobla di Ab gai so e il v.21 di Ans que sim: […]mas apres Dieu lieis honors e celebres.

E sempre da un’ottica intratestuale si può riflettere sulla fisionomia della donna di Arnaut, colei che assume un atteggiamento dapprima duro nei confronti del poeta, arrivando poi infine a ricambiare il sentimento: che sia la donna di Bouvila, come vuole la vida? La questione è molto complessa. Così come ci illustra Toja (1960), Canello riteneva che le ispiratrici della poesia danielina fossero due: un’aragonese, forse di nome Laura – nome allusivamente espresso da giochi allusivi insistenti: L’aura (canzone IX), laura, aura (X), laurs (XVI); oltre che dai riferimenti all’Ebro, quindi ai luoghi d’origine della donna; tutte le prove a favore della sua identificazione sono comunque molto deboli – e una guascone, celata dal senhal Meills de Ben – non si dà per certo né si ritiene errato il riferimento della vida alla donna di Bouvila – cui è dedicata, fra le altre, anche la canzone XIV; anche la guascone avrebbe avuto comportamento simile all’aragonese: prima sdegnosa, poi, persuasa dai prieghi del trovatore, gli concede i suoi favori. Seguendo l’ipotesi di Canello – alla quale sono seguite molte altre elaborazioni distinte, nessuna però, come questa, confermata con certezza – dunque le tre canzoni del “miniciclo” sarebbero dirette a due donne differenti: Ab gai so e Ans que sim all’aragonese e Amors e jois alla guascone. In realtà, forse proprio la fitta intratestualità, nonché l’ideale progressione di sentimento sulla quale i tre componimenti si pongono, indicherebbe un’unica destinataria, sulla quale non ci sarebbe forse troppo bisogno di discutere per individuarne l’identità: il protagonista reale della sua poesia è Arnaut stesso, teso nello sforzo umano ma eroico di autoaffermarsi, di conciliare la propria cultura e la propria maestria con il mondo che lo circonda, di riscattare il vizio del gioco con l’obrador e la taverna. Uno sforzo sempre in divenire, così come in divenire rimane l’opera di composizione, l’attività fabbrile del trobar – nonostante la coscienza di sé e delle proprie capacità. Non è questo un approdo, un esito che risulta del tutto nuovo: sappiamo già che il fondamento sociologico nella poesia trobadorica è appurato e ben evidente, così come lo stesso riferimento al sociale sarà fondante nella letteratura dei secoli a venire. Un esempio eclatante, già punto di arrivo per questa stessa ipotesi: lo Stil novo, la cui sostanza è certamente molto più elaborata e filosofica-filosofeggiante di quella trobadorica, ma in cui la rivisitazione del topos classico della donna angelo alla luce dell’angelologia filosofica – e quindi in diretta connessione con le intelligenze celesti motrici dei cieli – accentuava la sempre più sottile consistenza reale delle donne dei poeti, rendendole il tramite per cui il poeta-scriba Amoris poteva realizzare appunto il “dettato”, emergendo perciò tra coloro che per elevatezza d’animo e d’ingegno meglio si prestavano alla guida ideologica della società, culminante poi in quella collaborazione tra potere e cultura prospettata nel IV trattato del Convivio. Il discrimine filosofico è però estremamente importante in questo caso e ci porta direttamente a ricomporre di nuovo l’aspetto fabbrile, la Fortuna, il gioco all’interno del complessivo status di poeta e quindi della concezione d’amore: Arnaut non riconosce l’Amore come dictator, né arriva, nei testi qui analizzati, a posizioni totalizzanti e definitive. Anche in Ans que sim, infatti, l’approdo non è mai completo: la donna concede i suoi favori, alleviando le sofferenze del poeta, ma è Amore stesso a incitare il trovatore a non desistere né a interrompere il proprio sforzo di miglioramento e quindi di lode della donna, incarnando così il paradoxe troubadoresque per eccellenza, il joi che si trova nell’amore che mai si completa, che mai si avvicina nel caso del già citato amor de loinh, perché se ciò avvenisse, con lo sforzo verrebbe meno tutto il resto. E Amore – ancora, per Arnaut – non è dictator, ma “plan’e daura” il “chantar que de lieis mueu”: interviene dunque a indorare e raffinare massimamente le parole già “lavorate” artigianalmente, sgrossate e piallate (capus e doli) dal poeta, il cui cantare muove direttamente da lei, e non da Amore. Si ravvisa dunque qui una posizione opposta a quella già espressa da Bernart de Ventadorn in Chantar no pot gaire valer, dove d’ins el cor mou lo chan e il cor non può che essere animato da fin’amors coraus: è qui che materialmente si testa la mancanza del sostrato filosofico nella poesia arnaldiana, al contrario di Bernart, certamente influenzato da Riccardo di S. Vittore – ancora e non solo per Dante uno dei grandi teologi della Chiesa – il quale chiaramente lega la capacità di esprimere l’amore all’intimo dettato che può scaturire solo dal cuore. Ulteriore e programmatica differenza può notarsi, similmente, in un altro testo di Bernart, Can vei la lauzeta, nella quale il trovatore afferma di voler rinunciare al canto qualora non fosse reamatz (De chantar me gic e.m recre,/e de joi e d’amor m’escon) al contrario della permanenza – nei testi arnaldiani – del sentimento e della forza che genera il canto, vincendo e anzi fortificandosi di fronte a ogni avversità. A tal proposito è interessante citare anche lo scambio di componimenti che coinvolge ancora Bernart de Ventadorn (ancora Can vei la lauzeta ma anche la stessa Chantar no pot gaire valer) e Raimbaut d’Aurenga (No chan per auzel ni per flor) e a cui si riallaccia anche il troviero Chretien de Troyes nella sua D’Amors, qui m’a tolu a moi, che segue sì Bernart nella concezione più cortese dell’amore che procede da cuor gentile e da consapevole elezione – opponendosi quindi all’amore fatale, prodotto da una forza irresistibile, secondo la posizione del conte d’Orange – ma di fatto se ne discosta per le conclusioni completamente opposte. Infatti, mentre Bernart rinuncerebbe al canto se i suoi sentimenti non fossero ricambiati, Chretien conclude: “Cuers, se madame ne t’a chier,/ ja mar por ce t’an partiras:/ toz jorz soies an son dangier,/ puisqu’ anpris et comanciè l’as,/ Ja, mon los, planté n’ameras,/ ne por chier tans ne t’esmaier!/ Bien adoucist par delaier,/et quant plus desirré l’avras,/ tant iert plus douz a l’essaiier”, a sottolineare dunque una dedizione assoluta, anche senza compenso, teorizzando dunque il godimento amoroso come tanto più pieno e vero quanto più raro e difficilmente fruibile. Infatti, planté n’ameras, perché l’abbondanza toglie pregio alle cose largamente disponibili rendendole vili: planté è dunque sinonimo di vilté in questo caso, e ad essa fortemente si oppone, al contrario, la chier tans, la carestia, che si pone dunque ancora come emblema dello spitzeriano paradoxe amoureux à la base de toute la poesie troubadoresque tanto quanto (e molto simile in verità) l’amor de loinh di Jaufre Rudel. Ma non solo: la carestia è già tematica nell’ Ars amatoria, nei Remedia amoris e specie negli Amores ovidiani: “Pinguis amor nimiumque patens in taedia nobis vertitur” (II, XIX, vv, 25-26). Lo stesso termine provenzale, cartat, gioca ambiguamente sul significato dell’aggettivo car, di nuovo così tipicamente arnaldiano: ancora, possiamo citare alcuni versi che programmaticamente si oppongono, probabilmente, ancora a Bernart de Ventadorn, quelli di Lancan son passat li giure: “[…]Qu’ieu non trob jes doas en mil/ ses falsa paraulla loigna/ e puois c’a travers non poigna/ e no torne sa cartat vil[…]” (vv.13-16), dove la falsa paraulla loigna sembra contrapporsi alla lonja paraubla d’amar in Qan l’erba fresch’e lh folha par (BdT 70,39). Dunque, ecco che il cerchio sembra nuovamente tornare a chiudersi, comprendendo in tutt’uno la cartat simbolo di grandezza e veracità d’amore, che rafforza il cuore e il sentimento ma che rinnova anche costantemente l’impegno per scacciare la falsa paraulla, accrescendo il prestigio della creazione artigianale – attività ludica che è creatività, dunque vita e che in quanto tale risente quindi dei colpi di Fortuna – del testo e arrivando dunque ai motz de valor che saran verai e cert. A tal proposito chiudiamo questa scheda tornando al punto iniziale: riflettendo sulle occorrenze del termine astruc, particolarmente significativi – proprio alla luce e in quanto include tutti i punti appena ricordati – appaiono questi versi di Giraut de Bornelh, forse non sconosciuti ad Arnaut, da Amars, onrars e charteners (vv.1-16 e 33-40):

Amars, onrars e charteners,

Umiliars et obezirs,

Loncs merceiars e loncs grazirs,

Long’ atendens’ e loncs espers

Me degron far viur’ ad onor,

S’eu fos astrucs de bo senhor!

Mas car no.m vir ni no.m biais,

No vol Amors qu’eu sia gais.

Pero mos sens e mos sabers

E mos parlars e mos be-dirs,

Mos esperars e mos sofrirs

E mos celars e mos temers

M’agron totztems onrat d’amor,

S’eu perchasses mo ben alhor!

Mas cilh que.m ten en greu pantais

No vol qu’eu l’am ni que m’en lais.

[…] Era.m combat sobrevolers

E sobramars e loncs dezirs

E fa.m chassar sobrenardirs

E foleiars e no-devers

So que no tanh a ma valor,

E s’eu volh trop per ma folor,

Mos sens en par alques savais!

Mas eu remanh fis e verais.[…]

Melania Gatti