Canzone di parole piane e prime

Canzone di parole piane e prime
farò, giacché gemma il vinco
e le più alte cime
son del colore
di molti fiori
e verdeggia la foglia
e canti e gridi d’uccelli
risuonano a l’ombra
per il bosco.

Pei boschi odo il canto e il gorgheggio
e perché ciò non mi s’adduca a colpa
lavoro e limo
parole di valore
con l’arte d’Amore,
da cui non ho cuore di togliermi;
anzi, sebbene mi sfugga,
son suo segugio,
quanto più verso me inorgoglisce.

Niente vale orgoglio d’amante
perché presto rovescia il suo signore
dal luogo più alto giù nel terriccio
con tal travaglio
che d’ogni gioia lo spoglia;
giusto è che lacrimi
che arda e frigga
chi contr’Amor borbotta.

Donna gentile, verso cui mi volgo adorante,
non guardo altrove per vostr’orgoglio,
ma per paura degli indovini,
per cui Gioia trasale
faccio mostra che non vi voglia

che mai godemmo

del loro cibo

e mi duole raccoglierlo.

Se pur vado ovunque slegato

Raimbaut d’Aurenga: En aital rimeta

Raimbaut d’Aurenga

En aital rimeta prima
M’agradon lieu mot e prim
Bastit ses regl’e ses linha,
Pos mos volers s’i apila;
E atozat ai mon linh
Lai on ai cor qe m’apil
Per totz temps, e qi·n grondilha
No tem’auzir mon grondilh.

De la falsa genz qe lima
E dech’e ditz (don quec lim)
Ez estreinh e mostr’e guinha
(so don Joi frainh e esfila),
Per q’ieu sec e pols e guinh:
Mas ieu no·m part del dreg fil,
Qar mos talenz no·s roïlha,
Q’en Joi nos ferm ses roïlh.

Qan vei rengat en la cima
Man vert-madur frug pel cim,
E qecs auzelletz relinha
Vas Amor, don chant’e qila,
Per cui ieu vas Joi relinh,
Don m’esforz e chant e qil;
E·l rosinhols s’estendilha
Qe’m nafra d’amor tendilh,

 

Si que·l cor m’art, mas no·m rima
Ren de foras, mas dinz rim;
Q’Amors l’enclav’e l’escrinha
–Si! pels sans qi son part Mila!–
E·l ten pres dinz son escrinh;
Q’ades am mais per un mil
Midons, si tot si·m perilha
Ni·m mou trebailh ni perilh.

 

Asatz m’a sauput d’escrima
Il, q’enqers vas mi s’escrim;
Mas non ha d’Aics tro a Sinha
Sa par defors ni dinz vila
E si·m destreinh ni me sinh,
Ha pro poder que·m envil;
Mas ja sos cors no frezilha
Q’a mi·l sors promes frezilh.

 

Don mos cors sailh fort e grima
Si q’en trep e saut e grim
E plor mais per que . . .
Mon cort gaug, cui acortilha
Dols, don prenc mal . . .
Qe·m ten trist en son cortil
Per l’amor que m’a volpilha
Midons c’a cor trop volpilh.

Qar mi ten midons tan vil,

Maldic lo jorn mil vetz cilha
Q’aduis mon cor pres de cilh.

 

Mas ja no m’en tengues vil,
C’anc mos cors non fon pres cilha
Mas pels cis ni sobrecilh.

 

In questa canzoncina fine

mi piacciono lievi parole e fine,

costruite senza regolo o linea,

giacché il mio desiderio vi si radica;

e attosato ho il mio legno,

là dove ho desiderio d’appoggiarmi

per sempre, e chi ne strilla

non tema udire i miei strilli.

 

Di falsa gente che lima,

dichiara e sparla (onde tutti io limo)

e costringe e mostra e addita

(per questo Gioia è distrutta e rovinata)

per cui mi secco e ansimo e ghigno,

ma non mi allontano dal filo diritto,

perché il mio desiderio non arrugginisce

che ci blocca in Gioia senza ruggine.

 

In questa canzone è sicuramente da vedere il nucleo generatore di Canso do·ill mot son plan e prim, un testo di Arnaut Daniel (canzone II) con una tradizione manoscritta pari a quella della «sestina» e ad essa associato in più manoscritti. Il legame diCanso do·ill mot son plan e prim con En aital rimeta prima è denunciato dall’incipit, forgiato sul secondo verso, «M’agradon lieu mot e prim», ed è ribadito con la ripresa sistematica delle parole con rima in –im presenti nelle prime tre strofe della rimeta. La dichiarazione di Arnaut Daniel di voler comporre «con arte d’Amore» è accompagnata dunque da un esplicito rinvio alla rimeta di Raimbaut d’Aurenga. Si legga il passo arnaldiano:

 

Pels bruelhs aug lo chan e·l refrim,

e per qu’om no m’en fassa crim

obri e lim

motz de valor

ab art d’Amor

 

Pei boschetti odo il canto e il cinguettio e, perché non mi si faccia accusa, lavoro e limo parole di valore con l’arte di Amore

 

Anche la dittologia «ard’e rim», che troviamo in un altro luogo della canzone arnaldiana («dreitz es lacrim / e ard’e rim / sel que d’amor janguelha», «giusto è che frigni, / bruci e si strini / lui che l’amore imbroglia»), richiama, oltre che un passo dello stesso autore, anche l’inizio della strofe della rimeta di Raimbaut d’Aurenga («Si que·l cor m’art, mas no·m rima / Ren de foras, mas dinz rim»). L’ardere del cuore, rappresentato mettendo in rima la parola rima non poteva sfuggire al fabbro che lima parole con arte d’Amore.

SI TOT MI TEN EN DEZERT

 

Il sito web RIALTO interpreta il termine dezert come metonimico per “espiazione, penitenza”, sulla scia della tradizione-traduzione di Eusebi, per il quale i versi 38-39 del componimento di Arnaut Daniel Ab gai so vanno sciolti in questo modo:

“anche se non si cura di me (e dunque ‘nonostante mi faccia fare penitenza’) per lei compongo la melodia e la poesia”

poiché egli considera l’espressione tener en dezert antonimica di tener en car.

Noi riteniamo che forse la soluzione si può trovare considerando desert come metonimico per ‘espiazione, penitenza’ e collegando (come Eusebi) 38 a 39“.

Allo stesso modo, i filologi precedenti avevano interpretato dezert come immagine di una dolorosa situazione interiore:

per Canello il distico va infatti tradotto “così che languire mi fa”; per Perugi, che propone endesert: “per quanto mi tenga senza la ricompensa dovuta ai miei meriti”; e per Lavaud: “quoique cela e retienne dans la solitude”.

Su un altro livello interpretativo si trova invece la soluzione di Toja, che sceglie -e scioglie- un’altra variante per il verso 39: c’aissi n fatz los motz en rima, “poiché così ne faccio le parole in rima”. Di conseguenza il dezert è per Toja quella solitudine e quella sofferenza intima che sono per Arnaut le condizioni necessarie a causa delle quali -e nelle quali- compone e canta, rendendo così il suo canto uno sfogo, un’evasione sentimentale da questo stesso amore che lo tiene nel dezert.

Dunque è a causa del (e non nonostante il) dezert che il trovatore fa melodia e poesia, e lo stesso dezert è, a sua volta, caratteristica fondamentale e fondante di tutta la poetica arnaldiana, in quanto le parole sono rare, oscure, isolate. E questa riflessione sul dato poetologico e metapoetico porta a considerare che non solo la rima in -ert è cara, ma anche lo stesso sintagma che, se non si considera la presenza nel testo di Arnaut, ha solo sette ocorrenze nella lirica trobadorica.

Si ritrova infatti in

  • ElCair (133,1) al verso 55: “de lieys servir en pla ni en dezert“:

49 gentil

50 cors guay

51 e plazen,

52 e divers

53 contra totz mals a la bella que m art

54 lo cor e l cors, e ges per so no m part

55 de lieys servir en pla ni en dezert

56 a ley d’efan

57 cuy la candela platz 

58 que s’art joguan

59 suy trop entalentaz.

60 per Dieus, Amors, trop m’etz mala e perversa!

In questo testo -dove, tra l’altro, il verso 53 ricorda il 32 di Ab gai so cuindet e leri, per cui m’art lo cor e m rima– si intende con dezert un luogo fisico, geografico, nel quale l’amante serve la donna esattamente come nella pla, che però si oppone al dezert perché luogo popolato, affollato.

  • PAuv (323,16) al verso 66: “encausses lai el dezert”:

57 e fezes la terra e·l tro

58 e tot quant es ni anc fo,

59 d’un sol seing e·l sol e·l cel

60 e cofondes farao;

61 e des als filhs d’Israel

62 lach e bresca, manna e mel

63 e dampnes per serpen serpens,

64 c’als vostres fon requies

65 quan vos plac que Moyzes

66 encausses lai el dezert

67 e solses las mas e ls pes 

68 quand us angels l’ac espert

69 sanh Peire e l fezes cert 

70 dels vostres desctrics destreignens

Questo componimento merita particolare attenzione: Peire d’Alvernhe sta rivolgendo un canto a Dio, e dopo averlo invocato nelle prime coblas, lo prega affinché la grazia lo sostenga. Nelle coblas successive Peire elenca i prodigi che il Signore ha fatto nella storia della salvezza, da Sidrac, Misac e Abdenago a Daniele, Giona, a Lazzaro, dal miracolo delle nozze di Canaa al miracolo della creazione, alla figura di Mosè nel deserto (nelle coblas IX e X sopra riportate); e da San Pietro, alla plebaglia che cercò Gesù fino a farlo fuggire in Egitto per ritornare poi a Gerusalemme.

Ma, al di là di questa lista, ciò che va preso in considerazione è la collocazione ed il significato del termine dezert, qui inteso secondo la storia narrata nella Bibbia.

D’altra parte credo sia importante mettere in evidenza come questo termine possa essere in un certo senso collegato con la IV cobla: Qu’ieu no m sen si savis sai/ que puesca conquerre lay/ lo regn’on hom set ni fam/ ni freg non a ni esmay/ sil vostra vertutz cuy clam/ no m don’esfortz qu’ieu dezam/ los ioys d’aquest segle giquens (Perché io qua non mi sento così sapiente da riuscire a conquistare là il regno dove non si ha né sete né fame né freddo né angoscia, se la vostra potenza, che imploro, non mi dà la forza di disprezzare le gioie di questo mondo che vanno abbandonate). Ritengo qui rilevante l’espressione “lo regn’on hom set ni fam” che si contrappone decisamente al dezert, dove la sete in particolare, è invece presente con insistenza.

Ma, tornando alle occorenze di dezert, il termine si trova ancora in:

  • RaimJord (404,13) al verso 2: “e l rossinhol aug chantar el dezert”:

1 vert son li ram e de fuelha cubert

2 e·l rossinhol aug chantar el dezert,

3 autet e clar, per que retint la barta:

4 que sobr’auzels apar lo sieus chantars,

5 e·l pretz midons es sobr’autras plus clars,

6 per que mos cors no·m ditz qu’ieu ja m’en parta.

Anche in questo caso dezert è luogo geografico nel quale il trovatore riesce a sentire il canto degli uccelli: è quindi un luogo silenzioso, quasi addormentato, ma che si sveglia grazie a questo canto (dell’usignolo ma anche di Raimon stesso perché non si allontani dall’amata).

E, nella variante desert, in:

  • CtAmpr-FredIII (180,1-160,1) al verso 15: “onrat dels faitz,che l publat e l desert“:

9 ne no·s cuig ges che·l seus parenz desir

10 ch’el perda tan che·l regne no·il remagna,

11 ne·l bais d’onor per Franzeis enrechir,

12 ch’en laiseron lo plan e la montagna.

13 confunda·ls Deus e lor orgoil dezaia!

14 pero lo rei e Cicilian traia

15 onrant dels faitz, che·l publat e·l desert

16 defendon ben: d’acho sion apert.

Di nuovo il deserto, terra isolata, si oppone alla terra abitata, popolata. Significativa, anche se non letterale, mi è parsa una traduzione inglese dei termini publat e desert, resi con town e country. 

 

  • GlBerg (210,20) al verso 32: “que vostr’om sui en pla et en desert“:

25 a mon seignor puosc ben gabar e dir

26 que no·il reman el comtat de Sardaigna

27 mieiller vassals; e cel qe·m fai partir

28 de s’amistat Dampnidieus lo contraigna.

29 e vos, dompna, reina pros e gaia,

30 emperairitz, non cuietz q’ieu m’estraia

31 de vos amar, anz dic en descobert

32 que vostr’om sui en plan et en desert.

Qui il deserto è, come in Elias Cairel, un luogo geografico e fisico dove il trovatore è disposto a seguire ed amare la donna, proprio come nel plan.

 

  • Marcabr (293,21) al verso 22: “desert’ez essilha”:

19 volpils lengua traversana

20 qu’a lairo cossilha,

21 ab sa messorgua baussana

22 desert’ez essilha,

23 so per qu’amor segurana

24 non truep ses ruylha.

Il significato che Marcabru dà al deserto è da considerare con attenzione, anche perché questo trovatore è un importante punto di riferimento per Arnaut Daniel. Beltrami traduce: il vigliacco lingua torta/che di frode trama/con menzogna e con inganno/distrugge e fa il vuoto/e perciò amore sicuro/non c’è senza ruggine. Al deserto è dunque associata l’immagine della distruzione, quasi di una devastazione, immagine accompagnata dal significativo verbo essilha, che rende bene l’idea del vuoto, della nullità.

 

  • TomPal (442,1) al verso 53: “quant moc del desert”:

49 l’evesque culvert

50 non o preson gaire

51 se·l sainz Vas se pert

52 on fo nostre Paire

53 quant moc del desert,

54 mas amon Belcaire.

55 segur estem, seignors,

56 e ferm de ric socors.

In questo sirventese datato 1226, Tomier e Palazis discutono sulla crociata contro gli Albigesi. Qui si parla di deserto in chiave biblica, facendo così riferimento a “quando nostro Padre si mosse dal deserto”.  

Se poi si considera, oltre alla tradizione trobadorica, anche quello ebraico-cristiana, il termine assume, a mio parere, una più profonda connotazione. Come in altri passi (ad esempio quello sempre in Ab gai so: “l’amor qu’ins el cor mi plueu”) anche qui il riferimento è probabilmente di matrice scritturale. Così dezert si ritrova, nella sua tradizione latina prima e italiana poi, in circa 366 versetti della Bibbia.

Il significato religioso del deserto ha un diverso orientamento, a seconda che si pensi ad un luogo geografico oppure ad un’epoca privilegiata della storia della salvezza. Dal primo punto di vista il deserto è una terra che Dio non ha benedetto, l’acqua vi è rara, come nel giardino del paradiso prima che piovesse (Gen 2,5), la vegetazione minuta, l’abitazione impossibile (Is 6,11). Ed è proprio in questa prospettiva che il deserto, terra isolata, si oppone alla terra abitata come la maledizione alla benedizione (cfr. CtAmpr-FredIII).

Il punto di vista biblico dominante è il passaggio che Dio fa fare al suo popolo attraverso questa “terra spaventosa”  (Deut 1,19) per farlo entrare nella terra in cui scorrono latte e miele. Il simbolismo biblico del deserto non può quindi confondersi con la semplicistica lettura di una qualche solitudine o fuga dalla civiltà, nè mira al ritorno al deserto ideale, ma si realizza nel passaggio attraverso il tempo del deserto di cui l’esodo di Israele è la figura definitiva.

Credo sia allora importante ed utile analizzare il senso con il quale il termine è inteso nelle Scritture, e in particolar modo nei Salmi (dove lo troviamo una ventina di volte) e nel Cantico dei Cantici, poiché proprio per la stessa forma di questi libri, poesia -e non prosa- accompagnata da musica, è possibile fare con maggiore facilità il confronto con il testo di Arnaut.

Soprattutto ritengo rilevante il salmo  63, “Di Davide, quando dimorava nel deserto di Giuda”, in particolare i primi quattro versetti.

1 “O Dio, tu sei il mio Dio, all’aurora ti cerco,

    di te ha sete l’anima mia,

2  a te anela la mia carne, come terra deserta,

    arida, senz’acqua.

3  Così nel santuario ti ho cercato,

    per contemplare la tua potenza e la tua gloria.

4  Poiché la tua grazia vale più della vita,

    le mie labbra diranno la tua lode”.

Questa immagine del deserto come terra arida, senz’acqua, “terra riarsa” (Salmo 143,6) racchiude un importante significato: proprio perché è nel deserto, tra la sabbia, il caldo, la mancanza di acqua, l’anima ha sete, e questa sete, come sottolinea Riccardo di San Vittore in I quattro gradi della violenta carità, giunge al suo culmine nell’ultimo grado dell’amore, nel quale cioè si fa potente il “desiderio dell’anima ardente”, anima che “è condotta da Dio nella solitudine” (Osea 2,14).

La sete è, per Riccardo, l’elemento alla base del desiderio, ed è dunque presente in tutti i gradi dell’amore:

Nel primo grado l’anima ha sete di Dio, nel secondo ha sete di andare verso Dio. Nel terzo ha sete di essere in Dio. Nel quarto ha sete secondo Dio. Ha sete di Dio l’anima che dice: “L’anima mia ha sete di Dio, viva fonte: quando andrò e rivedrò il volto di Dio?” (Sal 41,3). Ha sete di essere in Dio l’anima che dice: “L’anima mia ha sete di essere in te” (Sal 62,2). Ha sete secondo Dio l’anima che dice: “L’anima mia si consuma senza posa nel desiderio di tuoi precetti” (Sal 118,20). Ha sete di Dio quando desidera sperimentare quale sia quella dolcezza interiore che di solito inebria la mente dell’uomo nel momento in cui egli comincia a gustare e a vedere “quanto è dolce il Signore”  (Sal 33, 9). Ha sete di andare verso Dio l’anima quando, attraverso la grazia della contemplazione, desidera elevarsi sopra di sé e vedere “il re nel suo splendore” (Is 33,17), per osare affermare in tutta verità: “Ho visto il Signore faccia a faccia e la mia anima si è salvata” (Gen 32,31). Ha sete di essere in Dio l’anima quando, attraverso l’estasi, desidera ardentemente passare tutta intera a Dio, in modo tale da poter dire, del tutto dimentica di se stessa: “Nel mio corpo o fuori dal mio corpo non lo so, lo sa Iddio” (2 Cor 12,2). Ha sete secondo Dio l’anima quando, di sua volontà, non solo nei desideri carnali, ma neanche in quelli spirituali, non lascia nulla alla sua libertà a affida tutto a Dio, non pensando più a “quali sono i suoi vantaggi ma a quelli di Gesù Cristo” (Fil 2, 12) per poter dire: “Non sono venuto a fare la mia volontà ma la volontà di mio padre che è nei cieli” (Gv 5,30; 6,38). 

Così Agostino aveva approfondito, nel suo Commento ai Salmi di lode, questi aspetti (pp. 114-122):

5. Ha avuto sete di te l’anima mia. Ecco il deserto dell’Idumea. Vedete in qual modo questi abbia sete, ma vedete anche come la sua sete sia buona. Ha avuto sete di te. Ci sono infatti alcuni che hanno sete, ma non di Dio. Chiunque vuole ottenere qualcosa, brucia dal desiderio; tale desiderio è la sete dell’anima. E vedete quanti desideri vi sono nel cuore degli uomini: uno desidera l’oro, un altro desidera l’argento, un altro ancora desidera le proprietà, un altro l’eredità, un altro denari in abbondanza, un altro numerose greggi, un altro una casa grande, un altro la moglie, uno gli onori terreni, e un altro ancora dei figli. Voi sapete di questi desideri e come essi sono nel cuore degli uomini. Tutti gli uomini ardono dal desiderio; ma quanto è difficile trovare uno che dica: Di te l’anima mia ha avuto sete! La gente ha sete del mondo e non si accorge di essere nel deserto dell’Idumea, ove l’anima loro dovrebbe aver sete di Dio. Noi almeno diciamo: Ha avuto sete di te l’anima mia. Diciamolo tutti, poiché, nella concordia di Cristo, tutti siamo una sola anima: un’anima assetata nel deserto dell’Idumea.

6. Dice: Ha avuto sete di te l’anima mia; in molte maniere di te ha avuto sete anche la mia carne. Poca cosa è che abbia avuto sete la mia anima; ha avuto sete anche la mia carne. Che l’anima abbia sete di Dio, va bene; ma com’è che anche la carne ha avuto la stessa sete? Poiché, veramente, quando il corpo ha sete ha sete di acqua; come quando l’anima ha sete ha sete della fonte della sapienza, alla quale si inebrieranno le nostre anime, conforme a quanto sta scritto in un altro salmo: Si inebrieranno nell’abbondanza della tua casa e tu li abbevererai nel torrente delle tue delizie (Sal 35, 9). Dobbiamo dunque aver sete della sapienza, dobbiamo aver sete della giustizia. E di ciò ci sazieremo, per quanto ne siamo capaci, al termine di questa vita, quando raggiungeremo ciò che Dio ci ha promesso, cioè l’uguaglianza con gli angeli (Cf. Lc 20, 36). Gli angeli non provano la sete che proviamo noi, non provano la fame che noi conosciamo, ma sono sazi di verità, di luce, di sapienza immortale. Per questo sono beati. E dalla loro sede beata, cioè da quella città, la Gerusalemme celeste, verso la quale noi ora siamo incamminati, essi attendono noi esuli. Hanno compassione di noi, e per ordine del Signore ci aiutano a tornare a quella patria che abbiamo con essi comune, per saziarci insieme con loro alla fonte di verità e di eternità che il Signore ci ha preparata. Allo stato attuale, dunque, l’anima nostra ha sete. Ma di che cosa ha sete anche la nostra carne? Quale è anzi la sua sete in più modi sperimentata? Dice infatti: In più modi ha avuto sete di te anche la mia carne. Se lo dice, è perché anche alla nostra carne è promessa la resurrezione. Come alla nostra anima è promessa la beatitudine, così alla carne nostra è promessa la resurrezione. Sì, la resurrezione della carne ci è stata promessa. Ascoltate e imparate; e tenete a mente quale sia la speranza dei cristiani e per qual motivo noi siamo diventati cristiani (…)

Ora infatti, fragili e corruttibili come siamo, se non mangiassimo ci sentiremmo stanchi e avremmo fame; se non bevessimo, verremmo meno e avremmo sete. Se rimaniamo svegli per molto tempo, ci stanchiamo e dobbiamo dormire; e quando siamo stanchi di dormire ci svegliamo. Se mangiamo e beviamo troppo, anche se mangiamo e beviamo per ristorarci, questo esagerato protrarsi della refezione diviene causa di debolezza. Se stiamo molto tempo in piedi, ci stanchiamo e ci dobbiamo mettere seduti; ma anche di stare troppo a lungo seduti ci stanchiamo e dobbiamo alzarci. Osservate inoltre come per la nostra carne non si dia alcuna stabilità. L’infanzia se ne vola passando nella fanciullezza; tu cerchi l’infanzia ed essa non c’è più, perché già al suo posto c’è la fanciullezza. Ma questa in un attimo vola nell’adolescenza; cerchi la fanciullezza e non la trovi. L’adolescente diventa giovane; cerchi l’adolescente e non c’è più. Il giovane diventa vecchio; cerchi il giovane e non c’è. Il vecchio muore: cerchi il vecchio e non lo trovi più. La nostra vita, nelle sue varie età, non si arresta; e dovunque c’è fatica, dovunque stanchezza, dovunque deterioramento. Mirando però alla speranza della resurrezione che Dio ci ha promessa, in tutte queste fasi del nostro decadere noi abbiamo sete di quella incorruttibilità; e così la nostra carne ha sete di Dio in molte maniere. In questa Idumea, in questo deserto, siccome in molti modi si soffre, così in molti modi si ha sete. In molti modi ci si stanca, e in molti modi si ha sete di quella incorruttibilità che non conosce stanchezza.

7. Tuttavia, fratelli miei, il cristiano, se è buono e fedele, ha sete di Dio in questo mondo, nella sua stessa carne. Se egli ha bisogno di pane, di acqua, di vino, di denaro, di una cavalcatura, deve chiedere tutto questo a Dio e non ai demoni o agli idoli o a non so quale potere di questo mondo. Vi sono infatti alcuni i quali, quando soffrono la fame (dico della fame fisica), abbandonano Dio e pregano Mercurio, oppure Giove o colei che chiamano la Celeste o qualche altro simile demone perché provveda ai loro bisogni. La loro carne non ha sete di Dio. Coloro invece che hanno davvero sete di Dio, debbono sentirla sempre e dovunque, nell’anima e nella carne, poiché Dio, come dà all’anima il suo pane, cioè, la parola della verità, così dà anche alla carne ciò che le è necessario: poiché Dio ha fatto sia l’anima, che il corpo. Per la tua carne preghi i demoni. Forse che Dio ti ha creato l’anima e i demoni hanno fatto la tua carne? Chi ha fatto l’anima ha fatto anche il corpo; e colui che ha fatto ambedue le cose, ambedue le cose nutre. Abbiano dunque, l’una e l’altra, sete di Dio, e nella loro molteplice fatica siano ristorate con un unico intervento di lui.

8. [v 3.] Ma quando l’anima nostra e (nelle sue svariate forme) anche la nostra carne hanno sete, e non di chiunque ma di te, Signore (cioè del nostro Dio), dove si trovano ad aver sete? Nella terra deserta e senza via e senz’acqua. Abbiamo detto trattarsi di questo mondo: questa è l’Idumea, questo è il deserto dell’Idumea, donde il salmo ha preso il titolo. Nella terra deserta. È poco dire deserta, cioè dove non abita alcun uomo; essa è per di più senza via e senz’acqua. Vi fosse almeno una via in quel deserto! O almeno un uomo in cui imbattersi, un uomo che sapesse la via per uscirne! Non incontra un uomo che lo consoli; non vede una via, anzi non ce n’è assolutamente. Deve fermarsi. E vi fosse almeno un po’ d’acqua! Non potendo uscire dal deserto, potrebbe almeno ristorarsi. Brutto il deserto! orribile e spaventoso! Ma Dio ha avuto misericordia di noi e ha aperto per noi una via nel deserto: il Signore nostro Gesù Cristo. E ci ha procurato una consolazione nel deserto: i predicatori della sua parola. Ci ha offerto dell’acqua nel deserto, ricolmando di Spirito Santo i suoi predicatori affinché si formasse in essi una fonte di acqua che sale fino alla vita eterna (Cf. Gv 4, 14). Ecco, noi abbiamo tutto, ma tutto questo non è roba del deserto. E se il salmo ha sottolineato fin dall’inizio le caratteristiche del deserto, l’ha fatto affinché tu, persuaso del male in cui ti trovi, quando incontri in tale deserto una qualche consolazione o compagni di viaggio o tracce di sentiero o sorgenti di acqua, non attribuisca tutto questo al deserto, ma a colui che s’è degnato venirti incontro nel deserto.

9. Così nel santuario sono apparso davanti a te, per vedere la tua potenza e la tua gloria. Antecedentemente aveva avuto sete di te la mia anima, e così la mia carne, la quale anzi era assetata in molte maniere. Questo quand’ero nel deserto, nella terra senza strada e senz’acqua. Dopo, io sono apparso davanti a te nel santuario per vedere la tua potenza e la tua gloria. Se uno non comincia a soffrire la sete nel deserto, cioè nel male in cui si trova, mai perverrà a quel bene che è Dio. Ma dice: Sono apparso davanti a te nel santuario. Trovarsi nel santuario è già una grande consolazione. Sono apparso davanti a te: che cosa significa? Mi ti son lasciato vedere. Avendomi tu visto, io posso ora vedere te. Sono apparso davanti a te per vedere. Non dice: Sono comparso davanti a te perché tu mi vedessi; ma: Sono apparso davanti a te affinché io potessi vedere la tua potenza e la tua gloria. Come dice l’Apostolo: Ma ora, conoscendo Dio, o meglio essendo conosciuti da Dio ( Gal 4, 9) prima siete apparsi dinanzi a Dio, affinché, in un secondo momento, Dio potesse apparire a voi. Per vedere la tua potenza e la tua gloria. A dire il vero, in questo deserto, cioè tra lo squallore di questa terra, se l’uomo pretendesse di trovare mezzi di salvezza forniti dallo stesso deserto, mai riuscirebbe a vedere la potenza del Signore e la sua gloria. Rimarrebbe a morire di sete, e non troverebbe né strada né consolazione né acqua che gli permettano di sopravvivere nel deserto. Se invece uno si eleverà verso Dio e dal più profondo di se stesso gli dirà: La mia anima e la mia carne, in molti modi, hanno avuto sete di te (Sal 62, 2 ) -e questo per non chiedere ad altri fuori che a Dio ciò che è necessario allo spirito e anche alla carne, e per non dimenticare la resurrezione della carne che Dio ci ha promessa- se uno dunque saprà elevarsi in questa maniera, conoscerà non piccole consolazioni.

In questo senso, è la solitudine, l’isolamento, l’assenza -dell’oggetto amato, vitale come l’acqua- che spinge il salmista a cercare (“all’aurora ti cerco”) e a cantare Dio (“le mie labbra diranno la tua lode”), e il trovatore la donna amata, tanto desiderata dall’anima assetata.

D’altra parte questi sentimenti, che alludono continuamente al campo semantico del deserto, possono essere rappresentati con un altro termine, come avviene nel Samo 102, che è la “sventura”. Nel salmo, non a caso intitolato “Preghiera nella sventura“, l’afflitto è “simile al pellicano nel deserto, come un gufo tra le rovine”.

In questo modo, si rafforza l’idea del doloroso processo interiore che porta al canto, considerato sfogo. Così l’anima che prima era sofferente, gioisce ora grazie al canto (Salmo 63,6: “e con voci di gioia ti loderà la mia bocca”) ed è in questo modo liberata, secondo quanto recita il Salmo 68 (vv.7-9)

“Ai derelitti fa abitare una casa, 

fa uscire con gioia i prigionieri,

solo i ribelli abbandona in arida terra.

Dio, quando uscivi davanti al tuo popolo,

quando camminavi per il deserto,

la terra tremò, stillarono i cieli (…)”

Ma Dio, se lascia perire nel deserto tutti coloro che si sono ostinati ed induriti nella loro infedeltà e nella loro mancanza di fiducia, non abbandona tuttavia il suo disegno: ha permesso cioè che il suo popolo dimorasse nel deserto perché ne uscisse e arrivasse alla terra promessa, facendo in questo modo del soggiorno nel deserto un’epoca privilegiata, ma provvisoria. 

Non è cosi in Arnaut, nel quale non c’è questo passaggio dalla solitudine, dal deserto alla gioia attraverso il canto; piuttosto il canto si ferma a una funzione di evasione sentimentale, di sfogo, fine a se stesso. E ritengo che ciò sia dimostrato dalla tornada, alla quale il trovatore prepara i lettori-ascoltatori durante tutto il suo canto ma significativamente quando parla di questo dezert, poiché alla solitudine, alla mancanza, all’isolamento, alla sventura, è accostata l’immagine del vuoto, della nullità, della vanità, presa a simbolo della poetica arnaldiana:

“Ieu sui Arnautz qu’amas l’aura

e cas la lebre ab lo bueu

e nadi contra suberna”.

Sembra quindi che Arnaut non esca dal deserto, come fa invece l’anima che si rivolge a Dio, eppure le corrispondenze con i passi biblici sono ancora numerose.

Nell’ottavo capitolo del Cantico dei Cantici, infatti il quinto versetto recita:

“Chi è colei che sale dal deserto,

appoggiata al suo diletto?”,

dove i Padri della Chiesa hanno visto nella figura femminile la Chiesa-Sposa di Cristo, che è il Re del Cantico.

C’è quindi una ripresa, da parte di Arnaut della figura femminile cantata nelle Scritture, ma è qui una ripresa solo formale perché questa figura, che in Arnaut è la donna amata, in realtà non ricambia chi la canta, non si appoggia al suo diletto.

Un’ultima importante considerazione credo sia da fare nei riguardi della esperienza di deserto dei monaci, della quale Arnaut era, suppongo, a conoscenza.

Nel mondo cristiano, il monachesimo ebbe origine tra la fine del III e gli inizi del IV secolo, in un periodo particolare, in cui finiva il mondo cosiddetto antico, e l’impero romano era già diviso fra Occidente ed Oriente. In quell’epoca, la Chiesa possedeva un’organizzazione abbastanza solida, una gerarchia, un culto, una letteratura. Col monachesimo inizia una forma di vita consacrata interamente alla preghiera e alla penitenza, nell’isolamento dal mondo e inizia, al tempo stesso la filosofia cristiana, o meglio, l’identificazione tra cristianesimo e filosofia.

Come nota giustamente il Curtius infatti, quando lo storico della chiesa Eusebio parla di “filosofia” non intende esclusivamente la fede cristiana, ma anche l’ascesi: “Eusebio non conosceva ancora il monachesimo, ma poco più tardi i suoi successori annettevano al termine ‘ascesi’ il significato specifico di identificazione della filosofia con l’anacoresi o col monachesimo. Ad esempio, Nilo di Ancira, considerava la vita monastica come la vera filosofia insegnata da Cristo”.

Così alcuni cristiani, specialmente in Egitto e in Palestina, ma anche in Siria e in Mesopotamia, iniziarono a ritirarsi nel deserto con l’intento di voler riaffermare che “il regno di Dio non è di questo mondo” e rivendicare i più alti valori dello spirito, insieme ad una protesta (più o meno esplicita) contro i pericoli della mondanità. In realtà l’origine del monachesimo risale ai primi convertiti che, nelle città, vivevano in modo radicale la propria fede alla ricerca di un’unione intima ed esclusiva con Cristo. Il loro ideale era quello di piacere soltanto a Dio e di anticipare in qualche modo sulla terra quella vita trascendente in cui Dio è “tutto in tutti”.

L’etimologia del termine “monaco” (dal greco mónachos = unico, solo) ha una lunga storia che inizia con Platone. Ha avuto diverse interpretazioni: Gerolamo la intende con “solitario”; i padri orientali con “persona unificata”; Agostino con persona mirante all’“unanimità” coi fratelli; nel mondo siriaco pensando al monaco come imitatore di Cristo, “l’unigenito”.

La prima espressione di vita monastica è sicuramente quella eremitica o anacoretica. Gerolamo definisce gli anacoreti quanti abitano da soli nei deserti e prendono il loro nome dal fatto che si sono ritirati lontano dagli uomini. Il termine originario greco anachoréo (= ritirarsi) significa la fuga nel deserto dei debitori insolventi. Gli anacoreti si caratterizzano per il loro isolamento pressoché totale, l’astinenza sessuale, le penitenze, il lavoro manuale e l’assenza di un superiore. In mancanza di fonti attendibili, non è possibile sapere dettagli sull’istituzione di questo tipo di vita. Solo successivamente farà seguito una vita associata o cenobitica (dal greco koínos bíos = vita comune). Fu Pacomio (292-347) che, dopo un’esperienza personale di vita eremitica, diede forma al cenobitismo impostato sulla convivenza nella totale condivisione dei beni e nella preghiera comune, nell’osservanza della stessa regola, nel lavoro manuale e nell’obbedienza all’abate. La sua prima comunità venne fondata nel 323 a Tabennisi, nell’alto Egitto. La sua Regola, di 194 articoli, venne osservata in poco più di vent’anni da nove conventi maschili e due femminili.

Anche Antonio il Grande (250-355), dopo un periodo di anacoretismo divenne “padre” di alcuni piccoli monasteri che facevano capo a lui. Basilio di Cesarea (330-379), grazie alle esperienze monastiche che lo avevano preceduto, iniziò ad apportare modifiche e correzioni alle forme cenobitiche già in atto. Egli impostò la convivenza comunitaria su un tipo di rapporto amicale, convinto che soltanto la vita cenobitica garantisse l’esercizio della carità. La coabitazione costituisce infatti un campo di prova, un continuo esercizio, un’ininterrotta meditazione dei precetti del Signore. Basilio limitò il numero dei monaci che vivevano assieme e inserì i monasteri all’interno della realtà sociale ed ecclesiale, aggregando ospizi, scuole, orfanotrofi. Ridimensionò l’impegno dei lavori manuali, dando maggior rilievo alla preghiera e allo studio. Infine, Gerolamo (340-420) riuscì ad esportare nell’Occidente queste forme di vita ascetica sorte nel mondo orientale.

Il percorso spirituale compiuto dal monachesimo è stato in primo luogo quello di rettificare le posizioni dell’inizio che portarono ad alcune degenerazioni: scarso senso ecclesiale, disordini morali, errori teologici, forme di fanatismo. Il cammino spirituale era visto come un passaggio dalla tristezza alla gioia. Sulla base delle prime esperienze compiute dai Padri del deserto venne formandosi un patrimonio comune di dottrina e di idealità. Possiamo individuare alcune tappe dell’ideale ascetico, secondo i seguenti temi:

1) pénthos: il tema della compunzione;

2) apótaxis: la rinuncia;

3) anachóresis: l’allontanamento nella solitudine;

4) áskesis: l’ascesi;

5) agôn: il combattimento spirituale;

6) apátheia: il dominio di sé;

7) diákrisis: il discernimento degli spiriti;

8) parrhesía: il riacquisto dello spirito colloquiale con Dio;

9) theopoíesis: la deificazione.

La parola deserto evoca risonanze nelle varie culture etniche, nella filosofia, nelle religioni e nella spiritualità. Il Nuovo Dizionario di Spiritualità (Edizioni Paoline, Cinisello Balsam,o MI 1989) tratta il termine “deserto” a partire dalla poesia araba dei beduini pre-islamici, nella quale si canta della lotta fra il deserto che rifiuta l’uomo e questi che cerca di conquistarlo comunque.

«L’uomo prende veramente coscienza del suo nulla e anche del nulla assoluto d’ogni cosa nella fuga inarrestabile del tempo. Non c’è dubbio che il deserto lamini l’uomo, come fa con tutto il resto; ma appare anche indubbia la rivincita dell’uomo, la cui lucidità mette a nudo il deserto nella sua realtà essenziale, la quale non è che il nulla… nella sua individualità, è la pietra, ossia il vuoto assoluto e irrazionale».

Questo prendere coscienza del nulla si ritrova in Arnaut, in particolare nella tornada: ecco allora che il termine dezert risponde con precisione al significato biblico e mistico come momento che prepara alla sperimentazione del vuoto, del nulla. Ma, come già notato, Arnaut si ferma a questo stadio. C’è sì anachóresis, almeno simbolicamente, ma non c’è askesis, né agôn, né apátheia, e così via.

Con argomentazioni di tipo etnologico, al deserto è attribuita la scoperta dell’unicità di Dio. L’uomo, divenendo pastore nomade, sviluppa progressivamente, con l’aiuto del deserto, l’idea del Dio unico. Questo sembra accertato sia nel pastore orientale antico che nella civiltà dell’America dopo la scoperta di Colombo. Gli stessi ebrei dovettero essere educati nel deserto al fine di pervenire all’idea del solo ed unico Dio. L’amore del deserto si trova in India, in Cina, in Asia centrale, in Africa e in America attraverso l’esperienza, simile ovunque, degli anacoreti. Non sempre si tratta del deserto come luogo geografico, con le sue rocce, le sabbie aride, le distese brulle, dove tutto muore, che impone la riflessione e la sensazione della nullità dell’uomo, sempre teso alla ricerca di oasi di verde dove la vita appaia di nuovo. Esistono infatti altri luoghi che assicurano la solitudine, il ritiro dalla mondanità, il silenzio, l’ascolto. 

L’attrazione del deserto venne sentita in modo originale dai mistici cristiani, non solo in quanto si sentivano stranieri e pellegrini in questo mondo, ove non hanno una città stabile, permanente (cfr. 1 Pt 2,11 ed Eb 13,14), ma anche per disporsi alla città futura, mediante l’ascesi penitenziale del deserto. Antonio il Grande è la figura emblema di questa scelta: la solitudine, il nascondimento, il deserto erano il luogo dove si scopriva meglio il conflitto delle passioni, delle forze oscure ed occulte, operanti all’interno di ogni uomo. Si credeva infatti che fosse il diavolo ad operare tale conflitto, aggirandosi da padrone nella solitudine del deserto. Pertanto, per le anime più decise e coraggiose il deserto diventava la palestra per una lotta più impegnativa e spesso risolutiva contro il nemico dello spirito. 

Antonio passa attraverso una prova di oscurità nel corso della quale ha l’impressione di essere abbandonato da Dio al potere diabolico: tuttavia egli persevera, pur nella fede più nuda. E solo al termine della prova, una visione luminosa del cielo lo consola. È allora che domanda: dov’eri? perché non sei apparso fin dal principio per far cessare le mie sofferenze? Una voce risponde: io ero là, ma attendevo per vederti combattere(Atanasio, Vita di Antonio).

Dunque il deserto può essere inteso come un luogo spirituale secondo le prospettive tracciate  nel  Dizionario teologico enciclopedico (Piemme, Casale Monferrato AL, 2004):

DINAMICA DEL PROVVISORIO (sulla quale ho già insistito): il deserto, secondo quando scaturisce dall’insegnamento biblico, come luogo geografico e come atteggiamento di separazione dal resto degli uomini, non può essere considerato una condizione permanente. Per il popolo eletto, il deserto ha rappresentato un tempo intermedio fra la schiavitù e la terra promessa. Per Abramo, Mosè, Elia e per Gesù stesso il soggiorno nel deserto fa parte di un itinerario spirituale come momento forte di maturazione delle proprie scelte e di incontro privilegiato con Dio. All’interno si inserisce una dinamica che dal passato si proietta al futuro, come costruire il termine verso cui si tende.

EDUCAZIONE ALL’ASSOLUTO: il deserto è più di un luogo di ritiro, perché l’uomo non è in grado di sostenersi da solo, di fronte al deserto. Si tratta dunque di un tentativo di avanzare nudi, deboli, privi di ogni appoggio umano, nel digiuno del cibo materiale e spirituale, verso l’incontro con Dio. Il deserto presuppone una rottura con il proprio ambiente: si lascia il mondo normale delle relazioni sociali e delle comodità per trovarsi soli in un  ambiente elementare, dove si risvegliano i bisogni essenziali, che prendono il posto di quelli secondari o fittizi. Come Israele, il cristiano è chiamato a dimostrare la sua fede nell’unico Signore, a dipendere solo da lui, a porre soltanto in lui la propria sicurezza. Deve scegliere l’Assoluto, relativizzando gli altri valori ed abbandonando gli idoli via via costruiti. 

L’esperienza monastica è sicuramente conosciuta da Arnaut Daniel, il quale, avendo studiato, ha approfondito il pensiero dei Dottori e Padri della Chiesa e degli stessi Monaci del deserto, e ha poi avuto la possibilità di vedere come questa esperienza era ancora viva nel suo tempo, della quale parla anche Abelardo (1079-1142):

Nelle sue Lettere, infatti, racconta di quando si trasferì “in un eremo nella zona di Troyes” e là si nascose “insieme ad un solo chierico, per poter cantare, come nel salmo:

Ecco, mi allontanai fuggendo

ed abitai nella solitudine”.

Poco più avanti Abelardo, riprendendo il pensiero di Gerolamo, sottolinea come anche i filosofi “abbandonarono le città”; e i Pitagorici i quali “sfuggirono la folla e scelsero di abitare in solitudine e in luoghi deserti”; e anche Platone che “scelse per dedicarsi alla filosofia e per stabilirvi l’Accademia, una località lontana dalla città, non solo deserta ma anche insalubre, così la cura e la frequentazione delle malattie avrebbero spezzato la forza della passione,e i suoi disepoli non avrebbero desiderato nient’altro che i suoi insegnamenti” (Gerolamo, Contra Iovinianum II).

D’altra parte, come è noto, lo stesso Gesù ha indubbiamente utilizzato il deserto come rifugio dalla folla:

  • Mt 14,13: “…e si ritirò in disparte in un luogo deserto”;
  • Mc 1,45: “…al punto che Gesù non poteva più entrare  pubblicamente in una città, e se ne stava fuori, in luoghi deserti”;
  • Mc 6,31: “Ed egli disse loro: ‘Venite in disparte, in un luogo solitario, e riposatevi un po’”;
  • Lc 4,42: “Sul far del giorno uscì e si recò in un luogo deserto”;

ma anche come luogo propizio alla preghiera solitaria:

  • Mc 1,35: “…e, uscito di casa, si ritirò in un luogo deserto e là pregava”.

Dio ha dunque chiamato Israele non a vivere nel deserto, ma ad attraversarlo e a sentirlo come esperienza che lo conducesse nella terra promessa, al contrario per Arnaut il deserto è la situazione in cui egli stesso vive, e dalla quale sembra non poter uscire. Non c’è infatti nel componimento un’allusione ad una qualche salvezza, terrena o celeste, c’è piuttosto, nella tornada, il ribadimento della sua esperienza di deserto, intesa nella sua etimologia di deserere, abbandonare, lasciare in abbandono.

Significativa è, a mio parere, la definizione del termine secondo il Vocabolaro Etimologico Pianigiani, che sottolinea come la particella latina de dia senso contrario a sèrere, che vuol dire connettere, annodare, quasi a dire “che non ha punto di connessione, cioè vuoto d’ogni cosa”. 

Altrettanto significativa è la definizione del termine deserto secondo le Etymologiae di Isidoro di Siviglia, poiché  se é vero che Arnaut studiò le lettere, allora è molto probabile che venne a conoscenza delle Etymologiae. Questo libro è infatti un’opera  fondamentale del Medio Evo, che si deve leggere proprio come era letto dall’uomo medievale e cioè “come un libro strutturalmente unitario e di incontestabile autorità”, come un gioiello, secondo quanto un copista inglese ha scritto su un codice:

This book is a schoolmaster to those that are wise,           

but not to fond fooles that learning despise,                              

A juwell it is, who list it to reede,                                                   

Whitin it are Pearells precious in deede.                                       

 “Questo libro è un maestro per coloro che son saggi,

 non per stupidi sempliciotti che sdegnano gli studi

 è un gioiello per davvero, chi desideri leggerlo.

 In esso sono contenute delle Perle preziose”.

Dunque per Isidoro:

Deserta vocata quia non seruntur et ideo quasi deseruntur; ut sunt loca silvarum et montium, contraria uberrimarum terrarum, quae sunt uberrimae glebae (Etymologiae XIV, 8,31).

E’ importante, a mio avviso, il fatto che per definire “deserto” Isidoro metta il termine in contrasto con il suo opposto, l’aggettivo uber, cioè fertile, fecondo, abbondante, come a sottolineare l’aridità e la secchezza della terra desertica, la sua mancanza d’acqua, in un certo senso il suo vuoto.

E proprio in questo vuoto, in questa vanità è racchiuso il senso dell’esperienza poetica del trovatore, che non viene esplicitata solamente dal punto di vista del contenuto, ma anche per quanto riguarda la forma, la struttura stessa del componimento. 

Ab gai so cuindet e leri è infatti strutturato su coblas dissolutas, prive di rime al loro interno e unissonans, dove cioè ogni verso rima con suo corrispettivo della strofa successiva. In questo modo viene ben messo in evidenza l’isolamento, la rarità della poetica arnaldiana, la sua oscurità, aridità.

Il discorso del deserto come terra arida vale, a mio parere, anche, più in generale, per il trobar car che, per sua definizione, corrisponde ad una poesia aspra, dura e oscura.

E credo che questa aridità formale non corrisponda semplicemente alla sterilità, ma possa, al contrario essere compresa, alla luce di quanto analizzato, come ciò che provoca la nascita di un frutto, il canto stesso. (Mi chiedo allora se questa feconda aridità del canto possa essere interpretata in relazione alla verga seca, verginale maternità di Maria).

L’anima nel deserto -l’uomo che si trova dunque in una situazione di aridità interiore- cerca nel canto un’evasione a questa sofferenza (la stessa aridità) riflessa nello stesso tempo in quella oscurità che definisce la poetica di Arnaut. 

Luisa Guida

AURIFLAMA

461,174 ~ 461,68:

1 N’Auriflama, car vos etz flamejans
2 coma fin aur quand es ben aflamatz,
3 en la flama ben flamant ni purgatz,
4 soi enflamatz e mon cors es flamans
5 d’una flama flamejant qu’es mout pura
6 que flameja si com fai dauradura,
7 la qual flama tot jorn creis e melhura;
8 n’Auriflama, vos etz d’aital natura.

9 Vos etz flama de fin aur reflamans,
10 n’Auriflama, per qu’ieu soi enflamatz
11 de tal flama dont es mon cors dauratz,
12 que coma l’aur lutz, tant es reflamans;
13 don flameja fuoc e flama tot dia
14 per vostr’amor qu’enflama tan la mia,
15 si qu’escantir la flama no·s poiria,
16 tan soi de vos enflamatz, douç’amia.

REIRAZAR

Bona es vida

pus Joia la mante,

que tals n’escrida

cui ges non vai tan be;

no sai de re

coreillar m’escarida,

que per ma fe

del mielhs ai ma partida.

De drudaria

no.m sai de re blasmar,

qu’autrui paria

trastorn en reirazar;

ges ab sa par

no sai doblar m’amia,

q’una non par

que segonda no.l sia.[40]

Nella partitad’amore Arnaut ha la sorte migliore («del meilhs ai ma partida»)[41],e per questo non può certo accusare il proprio destino («no sai de re / coreillarm’escarida»). Il termine reirazar èfortemente connotato e rinvia ad una fase precisa del gioco dell’azar, che è descritta con precisione nel Librode los juegos di Alfonso X:

Otra manera hay de juego quellaman azar, que se juega en esta guisa. El qui primero oviere de lançar losdados, si lançare quinze puntos o dizeséys o dizesiete o dizeocho o la soçobrasd’estas suertes, que son seys o cinco o quatro o tres, gana. ¶ E qualquiered’estas suertes (en qualquier manera vengan segundo los otros juegos que desusodixiemos) es llamad<a> azar. ¶ E si por aventura no lança ninguno d’estosazares primeramientre e da all otro por suerte una d’aquellas que son de seyspuntos a arriba o de quinze ayuso (en qualquiere manera que pueda venir segundoen los otros juegos dixiemos que vienen) ¶ e depués d’estas lançare alguna delas suertes que aquí dixiemos que son azar, esta suerte será llamada reazar eperderá aquel que primero lançare. ¶ E otrossí, si por aventura no lançare estasuerte que se torna en reazar e tomare pora sí una de las otras suertes, queson de seys puntos a arriba o de quinze ayuso (en qualquiere manera que venga),¶ converná que lançen tantas vegadas fasta que venga una d’estas suertes: o lasuya por que gana o la dell otro por que pierde; salvo ende si tomare aquellamisma suerte que dio all otro, que seríe llamada encuentro, ¶ e converníe quetornassen a alançar como de cabo. ¶ E comoquier que viniesse alguna de lassuertes que son llamadas azar o reazar, e entretanto que veníe una d’aquellasque amos avíen tomado pora ssí, non ganaríe ninguno d’ellos por ella ninperderíe fasta que se partiesse por las suertes, assí como desuso dize.[42]

Quan chai la fuelha

Il trobar car ha un’importante connotazione, che circoscrive un aristocratico disegno di assimilazione del preziosismo all’oscurità e al «poco giorno»: lo stile prezioso è scuro come l’inverno, lo stile piano è chiaro come la bella stagione. È Dejosta·ls breus temps e·ls lonc sers di Peire d’Alvernhe, un componimento la cui eccellenza sul piano melodico è dichiarata nella vida del trovatore, a segnare l’inizio del nuovo modo di comporre e a imprimergli un marchio che giungerà fino alle rime petrose di Dante.

Arnaut Daniel non si è ovviamente sottratto a questa tendenza; in più ha desunto, come al solito, motivi precisi dai testi latini letti a scuola:

Quan chai la fuelha

dels aussors entressims

e·l freg s’erguelha

don seca·l vais e·l vims,

dels dous refrims

vei sordezir la bruelha:

mas ieu sui prims

d’Amor, qui que s’en tuelha.

Tot quant es gela,

mas ieu no puesc frezir

qu’amors novela

mi fa·l cor reverdir;

non dei fremir

qu’Amors mi cuebr’e·m cela

e·m fai tenir

ma valor e·m capdela.

In un ms. proveniente da S. Marziale di Limoges (Paris, B. N. lat. 3719, fol. 42) troviamo un conductus profano straordinariamente simile (incipit identico, clausole con medesime vocali nella prima strofe, perfetta identità fra l’inizio della seconda cobla della canzone provenzale e la quarta strofe del testo latino qui riprodotta):

De ramis cadunt folia,

nam viror totus periit;

iam calor liquit omnia

et habiit,

nam signa celi ultima

sol peciit.

[…]

Modo frigescit quiquid est,

sed solus ego caleo,

immo sic michi cordi est

quod ardeo;

hic ignis tamen virgo est

qua langueo.

Cadono le foglie dai rami, tutto il verde muore; già il calore ha abbandonato ogni cosa ed è fuggito: infatti il sole avanza verso le ultime costellazioni del cielo… Ora tutto quanto gela, ma solo io resto caldo, anzi di più, il mio cuore mi fa ardere; e questo fuoco è la donzella per la quale languisco.

Al testo sammarzialese allegherei, per mostrare la compattezza della tradizione letteraria cui Arnaut fa riferimento, questo famoso carmen buranum:

Sevit aure spiritus,

et arborum

come fluunt penitus

vi frigorum;

silent cantus nemorum.

Nunc torpescit vere solo

fervens amor pecorum;

semper amans sequi nolo

novas vices temporum

bestiali more.

Il vento gelido inasprisce e le chiome degli alberi volano via per il freddo; tacciono i canti dei boschi. Ora intorpidisce l’amore degli animali, fervente in primavera; ma io, sempre innamorato, non voglio seguire il mutare delle stagioni come fanno le bestie.

L’aura

Il complesso sistema di isotopie sul nome di Laura trova una sua giustificazione nelle etimologie di Isidoro di Siviglia. Quello relativo alla derivazione di laurus da laus, lode, è noto («laurus a verbo laudis dicta; hac enim cum laudibus victorum capita coronabuntur»); ancora non valorizzata in direzione petrarchesca è quello che connette l’aurum all’aura, presente nel paragrafo De auro del XVI libro delle Etymologiae, dove si trova anche citata un’auctoritas virgiliana certo nota al Petrarca:

Aurum ab aura dictum, id est ab splendore, eo quod repercusso aere plus fulgeat. Unde Vergilius (Aen. VI, 204): Discolor unde auri per ramos aura refulsit, hoc est splendor auri. Naturale enim est ut metallorum splendor plus fulgeat luce alia repercussus.

Quindi l’oro prende il nome dallo splendore dell’aura, assimilata di fatto alla luce, allo splendore («al modo in cui quando il bronzo viene colpito dalla luce rifulge di più»), giacché è naturale che lo splendore dei metalli rifulga di più quando è colpito da un’altra fonte luminosa. Il passo virgiliano citato da Isidoro di Siviglia (Aen. VI, v. 204: «donde rifulse fra i rami l’aura di diverso colore dell’oro») è quello notissimo del VI libro dell’Eneide, dove si parla del momento in cui Enea trova, in una fitta selva nei pressi dell’ingresso dell’Averno, il ramo d’oro che, secondo quanto la Sibilla gli aveva detto, era necessario per compiere il viaggio ultraterreno. Nel verso citato da Isidoro, il lemma “aura”, che in genere significa “soffio d’aria, brezza, aria, cielo”, viene utilizzato da Virgilio nel senso di “luminosità, scintillio, splendore”.

Il gioco etimologico e paronomastico fra aurum e aura, del resto, dovette avere un’ampia e lunga tradizione. Lo troviamo già in epoca tardo-antica nell’Expositio in Psalterium di Cassiodoro:

Antiqui aureum colorem pulcherrimum vocaverunt; et ideo aurum ab aura dictum esse voluerunt, quod nimis gratissimo colore resplendeat. Nam hodieque aureum dicimus, quod pulchrum volumus aestimare.

E’ accennato in un testo di Venanzio Fortunato In laudem sanctae Mariae Virginis et matri Domini:

O quoties coctum zonae micat aura per aurum,

Pallida nec pallae est fimbria luce nitens!

Il passo isidoriano viene invece ripreso quasi letteralmente da Rabano Mauro nel De Universo, XVII, xii:

De auro

Aurum ab aura dictum, id est a splendore, eo quod repercusso aere plus fulgeat. Unde et Virgilius: “Discolor inde auri per ramos aura refulsit”. Hoc est, splendor auri; naturale enim est, ut metallorum splendor plus fulgeat luce alia repercussus.

E’ quindi estremamente probabile che Petrarca fosse a conoscenza di questa tradizione. Nondimeno, non sembrano ormai sussistere più dubbi sul fatto che la preistoria di Laura sia da ricercare anche in un notissimo passo trobadorico, la famosa tornada della canzone di Arnaut Daniel Ab gai so cuindet e leri:

Ieu sui Arnautz qu’amas l’aura

e cas la lebre ab lo bueu

e nadi contra suberna.

Questa canzone è intessuta di metafore volte a esprimere il legame fra amore, arte ed artigianato. La verità delle parole è qui direttamente legata al labor limae del poeta, la coscienza della veridicità è in rapporto con la retorica: la posizione di Arnaut Daniel si oppone a quella del suo modello Marcabru, critico invece della doratura delle parole, della «falsa razo daurada». Per Arnaut Daniel è Amore che indora le parole e che porta il poeta all’utilizzo di quegli artifici retorici che sono invece criticati dal grande moralista. L’Amore che canta Arnaut Daniel è in grado di apportare un miglioramento, un dirozzamento nell’animo come nelle parole: Amore è la causa del perfezionamento sentimentale e retorico del poeta, la fin’amor come il fin aur, il raffinamento della persona come il raffinamento dell’oro. In Ab guai so ritorna poi particolarmente insistente il motivo del disinteresse del poeta nei confronti dei beni materiali e degli onori mondani ed è accennato il tema della “perdita” per troppo volere (vv. 23-24): «qu’ab trop voler cug la.m toli, / s’om ren per trop amar pert».

Tenendo conto di questo quadro, ho fornito in altra sede una spiegazione del primo verso della tornada (v. 43): «Ieu sui Arnaut qu’amas l’aura». Il verbo amas sembrerebbe essere un termine tecnico dell’accumulazione improduttiva delle ricchezze e trova corrispondenza in un luogo di Bertran de Born legato all’opera di Arnaut Daniel:

E ja thezaur vielh no vuelh amassar,

Qu’ab thesaur jove pot pretz guazagnar.

Ritroviamo poi il termine in funzione significativa in una tenzone fra Peire ed Albertet:

Amics Peire, per messongier

vos en tenran li conoissen,

car cel que a destrugemen

met lo sieu e non garda com

e non cerca ga ni razon,

vos dic q’es plus fins amaire

qe·l vostre, q’es amassaire,

e drutz q’amassa ni rete

non ama ges per bona fe,

anz es vas si donz trichaire.

La posizione di Albertet, effettivamente, è paradigmatica di tutto un modo di intendere la fin’amor: «colui che manda in rovina il suo patrimonio […] è amante più fino di quello che voi difendete, il quale è un ammassatore, e l’amante che ammassa ed economizza non ama affatto con buona fede, anzi è ingannatore verso propria dama». Il fins amaire non può essere amassaire, amar si oppone ad amassar, insomma, chi ama non ammassa. Questa posizione, in duro contrasto con coloro che accumulano beni e ricchezze, è rintracciabile fra i trovatori fin da Bernart de Venzac, il quale sostiene che mai sarà pregiato né prode nessun uomo per ricchezza che ammassi:

Ja mais non er presatz ni pros

negus hom per aver qu’amas.

Nello stesso modo in una cobla anonima l’accumulazione di oro ed argento viene considerata contraria ai principi cortesi:

Ben es gran danz de cortesia

q’es cazut ios e tornat a nienz

zo son li avars qe cuian noig e dia

aur e argen amassar e tenir

Al mondano ammassare «thezaur» o «l’aur» Arnaut Daniel oppone quindi il suo «ammassar l’aura». Il gioco è evidente: anche qui viene rivendicata la rinuncia alle ricchezze terrene, non l’aur, ma l’aura, non l’oro, ma l’aria; anche qui la derivazione isidoriana gioca su un piano implicito, ma è evidentemente ben presente ed operante. Arnaut Daniel non chiarisce in cosa consista questa aura ammassata, lascia il gioco su un piano volutamente allusivo, enigmatico ed ambiguo, come del resto fa anche per gli altri termini dell’adynaton, ma il gioco viene ripreso ed esplicitato da un altro trovatore, Aimeric de Peguilhan che trasforma l’aura ammassata nel «capitale di sospiri» concesso dall’amata e fatto fruttare dal trovatore:

Pus ma belha mal’amia

m’a mes de cent sospirs captal,

a for de captalier lial

los ai cregutz quascun dia

d’un mil, per q’ueimais seria,

sol qu’a lieys plagues, cominal,

que los partissem per egual,

qu’aissi·s tanh de companhia.

Dacché la bella e cattiva amica del trovatore lo ha dotato di un capitale di cento sospiri, egli, a guisa di leale “capitalista”, li ho fatti crescere di mille al giorno; quindi ormai sarebbe giusto, che i profitti fossero ripartiti in parti uguali, perché così si opera quando si è in società con qualcuno.

E’ proprio su questo crinale che, a questo punto, vorrei condurre il ragionamento: Aimeric de Peguilhan reintrepreta probabilmente l’aura ammassata da Arnaut Daniel con il capitale dei sospiri. Per Petrarca potrà valere lo stesso discorso? Fino a che punto, cioè, Laura può essere associata ai sospiri del poeta?

Petrarca ha certamente conosciuto e imitato il testo danielino che aveva dato origine all’epiteto di «miglior fabbro». In particolare, la sestina 239 è il luogo in cui il sistema dell’aura si fa più palese e dove la citazione di Ab gai so è più esplicita. Aggiungerei che la ripresa è sapientemente accostata ad una allusione a Raimbaut d’Aurenga, l’autore aurato per antonomasia oltre che per evidenti ragioni onomastiche (oltre che al toponimo di provenienza, si pensi al nomignolo Linhaure con cui Raimbaut dibatte con Giraut de Bornelh). Gli ultimi versi della sestina petrarchesca recitano (vv. 31-39):

Ridon or per le piagge erbette et fiori:

esser non po’ che quella angelica alma

non senta il suon de l’amorose note.

Se nostra ria fortuna è di più forza,

lacrimando et cantando i nostri versi

et col bue zoppo andrem cacciando l’aura.

In rete accolgo l’aura, e ‘n ghiaccio i fiori,

e ‘n versi tento sorda e rigida alma

che né forza d’Amor prezza né note.

Guglielmo IX, Ben vuelh

Ben vuelh que sapchon li pluzor
d’est vers si’s de bona color,
qu’ieu ai trag de mon obrador:
qu’ieu port d’ayselh mestier la flor,
et es vertaz,
e puesc en traire.l vers auctor
quant er lassatz.

Ieu conosc ben sen e folhor,
e conosc anta et honor,
et ai ardimen e paor;
e si.m partetz un juec d’amor
no suy tan fatz
no.n sapcha triar lo melhor
d’entre.ls malvatz.

Ieu conosc ben selh qui be.m di,
e selh qui.m vol mal atressi,
e conosc ben selhuy qui.m ri,
e si.l pro s’azauton de mi,
conosc assatz
qu’atressi dey voler lor fi
e lor solatz.

Mas ben aya sel qui.m noyri,
que tan bo mestier m’eschari
que anc a negu non falhi;
qu’ieu sai jogar sobre coyssi
a totz tocatz;
mais en say que nulh mo vezi,
qual que.m vejatz.

Dieu en lau e Sanh Jolia:
tant ai apres del juec doussa
que sobre totz n’ai bona ma,
e selh qui cosselh mi querra
non l’er vedatz,
ni us mi noa tornara
descosselhatz.

Qu’ieu ai nom “maiestre certa”:
ja m’amigu’ anueg no m’aura
que no.m vuelh’ aver l’endema;
qu’ieu suy d’aquest mestier, so.m va,
tan ensenhatz
que be.n sai guazanhar mon pa
en totz mercatz.

Pero no m’auzetz tan guabier
qu’ieu non fos rahusatz l’autr’ier,
que jogav’a un joc grossier,
que.m fon trop bos al cap primier
tro fuy ‘ntaulatz;
quan guardiey, no m’ac plus mestier,
si.m fon camjatz.

Mas elha.m dis un reprovier:
“Don, vostre dat son menudier,
et ieu revit vos a doblier.”
Dis ieu: “Qui.m dava Monpeslier,
non er laissatz.”
E leviey un pauc son taulier,
ab ams mos bratz.

E quant l’aic levat lo taulier,
empeis los datz,
e.lh duy foron cairavallier
e.l terz plombatz.
E fi.ls fort ferir al taulier,
e fon joguatz.

La rima in -eri

La rima in –ERI

(Fulvio De Santis)

Per la rima in –ERI la ricerca con Trobvers restituisce venti occorrenze, delle quali solamente sette corrispondenti a parole parossitone. Sei di queste sette parole sono quelle utilizzate nel primo verso di ciascuna delle coblas di Ab gai so: leri, proferi, queri, emperi, soferi, esmeri. Solo la settima parola in –eri, “sauteri”, non è attribuibile ad Arnaut Daniel (BdT 29), ma al trovatore provenzale Raimon de Tors de Marseilha (BdT 410), unico a riutilizzare, nello stesso componimento (Ar es dretz q’ieu chan e parlle), anche le due parole “arnaldiane” “esmeri” e “emperi”.

Si riportano di seguito le 20 occorrenze, in ordine cronologico. In giallo sono indicate le prime occorrenze, in azzurro i successivi riutilizzi.


262,3 16   et anc mais tan greu no·m feri

29,10 1   ab gai so cuindet e leri

29,10 15   mil messas n’aug e·n proferi

29,10 22   tan l’am de cor e la queri

29,10 29   no vuelh de Roma l’emperi

29,10 36  ges pel maltrag que·n soferi

29,10 tot jorn melhur e esmeri

392,8 37  que vestitz josta peleri,

364,2 10  quant la vi si·m feri

370,14 20  car no vei lieis que de mort me gueri

305,1617  et anc pueys alres non queri;

192,1 ~ 330,2010  pois lai anet a penre, don lo viscoms meri:

151,1 ~ 111,211  e, se·m demandatz qi·m feri,

410,310  qi sabon tot lo sauteri

410,37  per q’ieu mon chantar esmeri,

410,38   qar cuja aver l’emperi

434a,1713  “en Cerveri,

434,7c31  digatz, seyner en Cerveri,

434,7b11  “a que cercatz en Cerveri?”.

434,7b15   per que, mos amics me·n feri

Da Wikipedia

Raimon de Tors de Marseilha (1257–1265) was a Provençal troubadour. He hailed from the “city of towers (tors)” in Marseille (Marseilha), a district wherein the local bishop possessed many towers. He wrote six moral and political sirventes which survive.

Raimon was a dispassionate debater, equally sympathetic to the Guelph cause of Charles of Anjou and that of the Ghibelline Henry of Castile. He had great affection for Alfonso X of Castile, but never visited Spain. But like many contemporary troubadours on either side he hated “false clerics” and denigrates them extensively in his poetry. Metrically and rythmically, Raimon imitated the Apres mon vers vueilh sempr’ordre of Raimbaut d’Aurenga in his own Ar es dretz q’ieu chan e parlle.

Raimon’s most interesting and entertaining song is undoubtedly his complaint against mothers-in-law, A totz maritz mand e dic.

Ab gai so e Bernart de Ventadorn

Arnaut Daniel, Ab gai so e Bernart de Ventadorn

(Fulvio De Santis)

Bernart de Ventadorn (BdV), spesso considerato il più grande dei trovatori provenzali, apre una tra le sue più famose canzoni come segue:

Chantars no pot gaire valer,

si d’ins dal cor no mou lo chans;

ni chans no pot dal cor mover,

si no i es fin’amors coraus.

Per so es mos chantars cabaus

qu’en joi d’amor ai et enten

la boch’e·ls olhs e·l cor e·l sen.

E’ possibile ravvisare una relazione intertestuale tra questa canzone, in particolare tra la strofa riportata, e Ab gai so di Arnaut Daniel, il cui esordio è:

Ab gai so cuindet e leri

fas motz e capus e doli,

que seran verai e sert

quan n’aurai passat la lima,

qu’Amor marves plan’e daura

mon chantar que de lieis mueu

cui Pretz manten e governa.

La lettura della prima strofa delle due canzoni fa emergere una certa distanza tra i rispettivi autori, per quanto riguarda il loro atteggiamento nei confronti della relazione tra canto-amore-cuore e ruolo del poeta.

BdV afferma espressamente nella prima cobla che:

a nulla vale il canto se non viene dal cuore (chantars no pot gaire valer, / si d’ins dal cor no mou lo chans);

il canto non può muovere dal cuore se non c’è amore fino e “corale”, ovvero interiore (ni chans no pot dal cor mover, / si no i es fin’amors coraus);

il canto del poeta eccelle perché poggia sulla gioia d’amore (per so es mos chantars cabaus / qu’en joi d’amor ai et enten / la boch’e·ls olhs e·l cor e·l sen).

AD sembra invece voler:

rivendicare un ruolo da protagonista per se stesso, in quanto “artigiano” della parola (fas motz e capus e doli);

assegnare ad Amore un ruolo fondamentale ma, almeno temporalmente, secondario rispetto a quello del poeta nella produzione del “chantar”. Amore interviene infatti solo a rifinire, forse a levigare, ciò che il poeta ha generato e su cui già ha “passat la lima” (quan n’aurai passat la lima, / qu’Amor marves plan’e daura / non chantar…).

A prescindere dalle possibili interpretazioni degli ultimi due discussi versi della I cobla di Ab gai so (que de lieis muou / cui Pretz manten e governa), AD sostiene infatti che le sue parole, prima dell’intervento d’Amore, sono comunque verai e sert e quindi, a differenza di quanto affermato da BdV, non prive di valore.

La posizione di BdV in Chantars no pot, diversa da quella che emerge in Ab gai so, ha importanti riferimenti ideologici. Antonelli (1978) individua uno dei principali di questi in Riccardo di S. Vittore (Scozia, ca 1110 – Parigi10 marzo 1173), priore e maestro di teologia presso l’abbazia di San Vittore (presso Parigi) dal 1162 al 1173. Riccardo di S. Vittore, incluso da Dante (Par. X, 130) tra i grandi teologi e dottori della Chiesa, afferma che può parlare d’amore solo chi lo fa sotto l’intimo dettato del cuore. Questo è il ben noto solco nel quale si colloca Dante stesso in Purg. XXIV, vv.52-55:

…I’ mi son un, che quando

Amor mi spira, noto, e a quel modo

ch’e’ ditta dentro vo significando.

Ancora più esplicitamente, nella Monarchia, III, IV, 11, Dante definisce Dio “unicus Dictator” che spiega le proprie intenzioni attraverso le penne di molti: “Nam quanquam scribe divini eloquii multi sint, unicus tamen dictator est Deus, qui beneplacitum suum nobis per multorum calamos explicare dignatus est”.

Per BdV, come poi sarà per Dante – con le dovute differenze – il poeta è pertanto strumento materiale, ispirato e mosso da Amore/Dio, che nulla può in assenza di “fin’amors coraus”.

Antonelli (1978, pag. 182, nota 5) ravvisa nei versi di BdV un’ autoesaltazione che si fonda “su una conoscenza ‘amorosa’ da lui ritenuta superiore”: l’amore è cioè strumento di conoscenza e indice di gentilezza e superiorità. Nella II cobla, BdV afferma la propria disponibilità ad amare senza alcuna ricompensa, proprio per l’arricchimento e quindi l’elezione che da questa esperienza deriva. La misura di tale autoesaltazione è ben resa dalle due strofe finali di Chantar no po, in cui il poeta riafferma con forza l’ispirazione del proprio cantare e quindi la propria eccellenza:

Lo vers es fis e naturaus

e bos celui qui be l’enten;

e melher es, qui·l joi aten.

Bernartz de Ventadorn l’enten,

e·l di e·l fai, e·l joi n’aten!

L’indissolubilità tra Amore e canto è affermata da BdV anche nella canzone Can vei la lauzeta mover che, come noto, assieme a No chant per auzel di R. d’Aurenga e a D’amors qui m’a tolu a moi, del romanziere e troviere C. de Troyes, forma una triade di componimenti in cui i tre grandi autori confrontano, anche polemicamente, le rispettive concezioni d’amore. La posizione di BdV nei confronti della mancata ricompensa d’amore è però in questa opera diversa da quella che troviamo in Chantars no pot. Negli ultimi due versi della tornada di Can vei la lauzeta mover, BdV, deluso per l’impossibilità di ottenere amore, dichiara infatti la propria intenzione di rinunciare ad amare e a cantare:

de chantar me gic e m recre,

e de joi e d’amor m’escon.

Proprio su questo atteggiamento si innesta la polemica con il “libertino” R. d’Aurenga, che invece afferma la propria fede assoluta in amore e nella sua donna del momento, e con C. de Troyes, sostenitore della fedeltà assoluta e della paziente sofferenza nell’esperienza amorosa.

Indipendentemente dal “dibattito” tra BdV, R. d’Aurenga e C. de Troyes (si veda al proposito la discussione in Antonelli, 2007), è qui interessante osservare la diversa posizione di AD (in Ab gai so) e di BdV (in Can vei la lauzeta mover), rispetto al possibile fallimento amoroso. All’atteggiamento rinunciatario di BdV, si contrappone infatti la dichiarazione di AD di voler comunque continuare a comporre musica e poesia per l’amata, anche se lei non dovesse curarsi di lui (cobla VI).

Dalla lettura in parallelo di Ab gai so e delle due canzoni Chantars no pot e Can vei la lauzeta mover sembrerebbe quindi che AD voglia ritagliare per se stesso un ruolo in qualche modo più modesto e paziente (ma, proprio per questo, più umano ed eroico) di quello di BdV, sia nella versione autoesaltante di Chantars no pot, che in quella rinunciataria e di autocommiserazione di Can vei la lauzeta mover. E infatti, dall’opera di artistica rifinitura artigianale (cobla I), dalla venerazione quotidiana dell’amata (cobla II), dalle mille messe offerte o pronunciate (cobla III) e dal voler comporre musica e poesia per l’amata, anche se lei non dovesse curarsi di lui (cobla VI), emerge da Ab gai so una figura umana caratterizzata da grande costanza e tenacia, sia per quanto riguarda il proprio ruolo di poeta-fabbro che per la volontà di lottare, pur consapevole dell’inutilità dei propri sforzi. Tale tenacia è emblematicamente rappresentata dalla famosa triplice amara metafora dell’immane e vano lavoro che chiude la canzone:

Ieu sui Arnautz qu’amas l’aura

e cas la lebre ab lo bueu

e nadi contra suberna.

Riferimenti bibliografici

Antonelli R. (1978). Le Origini. In Storia e antologia della letteratura italiana (a cura di A. Asor Rosa), vol. 1. La Nuova Italia Editrice, Firenze.

Antonelli R. (2007). Avere e non avere: dai trovatori a Petrarca, in “Vaghe stelle dell’Orsa”. L’ “io” e il “tu” nella lirica italiana, a cura di F. Bruni. Marsilio, Padova, pp. 41-75.

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Chantars no pot gaire valer

B. de Ventadorn

Ed. Appel, 1915, 15

I

Chantars no pot gaire valer,

si d’ins dal cor no mou lo chans;

ni chans no pot dal cor mover,

si no i es fin’amors coraus.

Per so es mos chantars cabaus

qu’en joi d’amor ai et enten

la boch’e·ls olhs e·l cor e·l sen.

II

Ja Deus no·m don aquel poder

que d’amor no·m prenda talans.

Si ja re no·n sabi’aver,

mas chascun jorn m’en vengues maus,

totz tems n’aurai bo cor sivaus;

e n’ai mout mais de jauzimen,

car n’ai bo cor, e m’i aten.

III

Amor blasmen per no-saber,

fola gens; mas leis no·n es dans,

c’amors no·n pot ges dechazer,

si non es amors comunaus.

Aisso non es amors: aitaus

no·n a mas lo nom e·l parven,

que re non ama si no pren!

IV

S’eu en volgues dire lo ver,

eu sai be de cui mou l’enjans:

d’aquelas c’amon per aver.

E son merchadandas venaus!

Messongers en fos eu e faus!

Vertat en dic vilanamen;

e peza me car eu no·n men!

V

En agradar et en voler

es l’amors de dos fis amans.

Nula res no i pot pro tener,

si·lh voluntatz non es egaus.

E cel es be fols naturaus

que de so que vol, la repren

e·lh lauza so que no·lh es gen.

VI

Mout ai be mes mo bon esper,

cant cela·m mostra bels semblans

qu’eu plus dezir e volh vezer,

francha, doussa, fin’e leiaus,

en cui lo reis seria saus.

Bel’e conhd’, ab cors covinen,

m’a faih ric ome de nien.

VII

Re mais no·n am ni sai temer;

ni ja res no·m seri’afans,

sol midons vengues a plazer;

c’aicel jorns me sembla Nadaus

c’ab sos bels olhs espiritaus

m’esgarda; mas so fai tan len

c’us sols dias me dura cen!

VIII

Lo vers es fis e naturaus

e bos celui qui be l’enten;

e melher es, qui·l joi aten.

IX

Bernartz de Ventadorn l’enten,

e·l di e·l fai, e·l joi n’aten!

Schema metrico

  • abac cdd; 2 tornadas: cdd dd
  • ottosillabi maschili (8)
  • 7 strofe unissonans + 2 tornadas

Analisi puntuometrica

I

II

III

IV

V

VI

VII

TOT.

1

1

1

1

1

2

6

2

2

3

1

2

3

1

12

3

1

1

1

3

1

2

2

11

4

3

1

3

3

3

2

15

5

2

3

3

8

6

1

1

2

1

6

7

3

3

3

2

3

3

3

21

Ab gai so e la metafora della pioggia nel cuore

Ab gai so e la metafora della pioggia nel cuore

(Fulvio De Santis)

Ab gai so, vv. 13-14 (…ins el cor mi plueu)

l’amor qu’ins el cor mi plueu

Mi ten caut on plus iverna

Rea (2008) osserva che l’uso metaforico del verbo piovere, che troviamo in Arnaut Daniel, viene ripreso in Cavalcanti, per esprimere il “vasto spargersi di amore nel cuore, come se piovesse misteriosamente dall’alto”.

Ad esempio, nel verso 11 del componimento XIV di Cavalcanti si trova:

par che nel cor mi piova

un dolce amor sì bono

Rea (2008) osserva che l’uso metaforico dell’immagine della pioggia nel cuore, in relazione a sentimenti dell’animo, ripresa da Cavalcanti, non sembra avere precedenti nella lirica trobadorica e italiana.

Il modello di Arnaut Daniel sarebbe di matrice scritturale. Nella Bibbia e nei testi esegetici la metafora della pioggia interiore esprime l’avvento della grazie divina nel cuore degli uomini. Ad esempio (Salmo 71, 6-7):

descendet sicut pluvia in vellus et sicut stillicidia stillantia super terram

Cfr. anche Petrus Cellensis, Tractatus de Disciplina Claustralis:

http://books.google.it/books?id=4Yqjcxgk_M4C&dq=%22amor%20pluit%22&pg=RA6-PA1141&ci=96,1072,414,381&source=bookclip

Triplex sildevolio alia compuncliva alia suspi riosa alia lacrymosa Compunctiva est Tons scatu ïicns 8uspiriosa esl fous saliens lacrymosa fons Miperebulliens Pungit compunctiva elicit suspi riosa fundit cl pluit lacrymosa Timor pungit spcs elicit amor pluit Yenam stringit limor spes ape ril amor humorem cum impetu spiriluseducil Sic minulus sanguine peccati ligamenlo ferro ctmotti cordls voluntario dicat Domino Voluntarte sacrificaba libi Pial LIU 8 qui ante prasidem l galus aslitisli qui clavis conlixus in ligna pe pendisli qui lancea percussus sanguinem et aquam dedisli oblatus es quasi non coactus quasi qui nouions sed dévolus cl sponlancus quia voluisli Jam de causa dicendum est in qua jï i noiav

Cavalcanti estende l’uso della metafora della pioggia nel cuore per esprimere l’attivazione di processi interiori dell’io lirico, con particolare riferimento a “affezioni dolorose” dell’animo che risultano, nella lirica del fiorentino, inesorabilmente fatali. Ad esempio in Cavalcanti XXXI, v. 13, si legge

e veggio piover per l’aere martiri

che struggon di dolor la mia persona

Il poeta fiorentino va oltre, spostando la metafora della pioggia dal “cor” alla “mente” (XVII, v. 12):

allora che nella mente piova

una figura di donna pensosa

che vegna per veder morir lo core

Il motivo della pioggia d’amore è presente anche in Dante. Perugi (1995) evidenzia quattro occasioni in cui tale motivo viene utilizzato, due nelle Rime e due nel Paradiso.

Nella ballata I’mi son pargoletta (vv. 11-12) il motivo è, secondo Perugi, “usufruito attraverso le ballate cavalcantiane”.

Ciascuna stella ne li occhi mi piove

Del lume suo e de la sua vertute

Recupero più autentico del modello arnaldiano è invece quello nella canzone Io son venuto (vv. 67-68):

Canzone, or che sarà di me ne l’altro

dolce tempo novello, quando piove

amore in terra da tutti li cieli,

quando per questi geli

amore è solo in me, e non altrove?

Gli usi della metafora della pioggia d’amore si trovano nei canti XXVII e XXXII.

Paradiso XXVII, 106 e seg.

(Spiegazione di Beatrice sulla struttura dell’universo e del Primo Mobile)

«La natura del mondo, che quïeta
il mezzo e tutto l’altro intorno move,
quinci comincia come da sua meta;

e questo cielo non ha altro dove
che la mente divina, in che s’accende
l’amor che ‘l volge e la virtù ch’ei piove.

Paradiso XXXII, v. 88 e seg.

(S. Bernardo invita Dante a guardare la Vergine)

Io vidi sopra lei tanta allegrezza
piover, portata ne le menti sante
create a trasvolar per quella altezza,

RIFERIMENTI BIBLIOGRAFICI

M Perugi (1995). Un’idea sulle rime di Dante. Introduzione a D. Alighieri, Rime, a cura di G. Contini. Einaudi Tascabili.

R. Rea (2008). Cavalcanti poeta. Uno studio sul lessico lirico. Edizioni Nuova Cultura. Roma.

Ab gai so. H c. 10r

carta-10r

MALASTRUC: ARNAUT DANIEL E RAIMBAUT D’AURENGA

Ar non sui jes mals et astrucs,

Anz sui ben malastrucs de dreg;

E puois malastres m’a eleg

Farai vers malastruc e freg.

Si trop un malastruc adreg

Que·l malastruc cap mi pesseg!


Que per totz temps sui malastrucs

Per un gran malastre qe·m ve;

E qui per malastruc no·m te

Dieu prec de malastre l’estre

Que mil malastruc foran ple

Del malastre q’ieu ai en me.


Dompna, per vos sui malastrucs

Car per malastre·m voletz mal;

E fis ben malastruc jornal,

C’anc nuills malastrucs no·l fetz tal!

Malastruc tro manatz engal

Per que d’est malastruc no·us cal.


Er aujatz cum sui malastrucs:

Qand cuich de malastre mover

Eu sui plus malastrucs en ver!

C’ab malastre·m laissiei cazer,

E pois vinc malastre querer,

Don aurei malastruc esper.


E pus aysi soy malastrucs

Mos pels malastrucx mi tolray

– Aytan del malastre perdray –

E si·l malastre no s’en vay

Malastrucx sia qui mi play

Car tan de malastre m’eschay.


S’ieu atrobes dos malastrucs

Q’anesson malastrugamen

A me mais malastre queren,

Adoncs for’ieu malastruc-gen;

Mas non trob malastruc valen

C’a me de malastre·s prezen.


Et eu sui aitant malastrucs

Qe de malastre port la flor

Et ai ben malastrug honor.

Levet, malastruc de seignor,

Tu chantes malastre ab plor

D’aquest malastruc amador!


Tu iest malastrucs de seignor

Et ieu soi malastrucs d’amor.

Raimbaut d’Aurenga si definisce – in questa chansòmalastruc, utilizzando un termine, un concetto, senz’altro caro alla cultura medievale, che ricorre con notevole frequenza nella poesia trobadorica, che sarà ereditato poi anche dalla poesia italiana – non ultimo Dante (con le voci malastrù, malastrudo, malastro, malestro e il malfatato dantesco) -. Malastruc è colui che si trova al di fuori dall’influenza di una “buona stella”, ed è perciò “malastrato”, sfortunato. L’importanza del termine è legata sia alla dottrina filosofica delle influenze celesti – durante la stagione trovadorica e più precisamente nell’inoltrata seconda metà del XII sec probabilmente ancora in fieri ma certamente già largamente nota e operante, per esempio in area italiana, mezzo secolo più tardi – sia soprattutto al concetto di Fortuna, centrale specie nella poesia goliardica, a sottolineare come lo status di colti dei clerici vagantes, la frequentazione degli ambienti universitari e il diletto nel trobar accomunassero e consentissero frequenti scambi tra i goliardi, legati al mondo ecclesiastico, e i poeti cortesi. Nell’elaborazione goliardica, come risulta evidente dai Carmina Burana, coi quali essa massimamente s’identifica, il concetto di Fortuna – dalle caratteristiche paganeggianti – quasi si sostituisce alla Legge Divina, ma di fatto a questa si accompagna, rappresentandone la realizzazione terrena, più immediatamente riconducibile all’ambiente delle taverne, perfettamente esemplificata nel gioco dei dadi. Infatti, la Fortuna è rappresentata miniaturizzata come una ruota, che girando sottolinea l’imprevedibilità, la fugacità, ma anche la circolarità della contingenza, una sorta di regolarità per cui è possibile sovvertire l’ordine sociale, per cui quindi i poveri si trovano improvvisamente ad essere ricchi e viceversa, riportando di fatto l’attenzione e ammonendo gli uomini che tutto il mondo terreno è nelle mani di Dio: chi si lascia perciò abbindolare dall’avidità e dalla superbia agisce in modo anticristiano ed è condannato alla rovina temporale ed eterna – e non è raro infatti trovare associate, alla fugacità delle ricchezze, anche le considerazioni sulla grandezza umana, dei signori, che si definisce soprattutto in base alla loro prodigalità, al loro mettere a disposizione le proprie ricchezze in favore di molti, rimandando all’immagine dei giullari che sopra ogni altra cosa chiedono ai signori di donar loro un cavallo.

L’indagine sul concetto di fortuna nel Medioevo parte necessariamente – come ha sottolineato Howard R. Patch in The goddess Fortuna in the Medieval literature – da una mancanza: ci si può affidare unicamente alla parte istruita della popolazione. Nonostante le pressoché inesistenti attestazioni, presso le classi inferiori molto probabilmente sopravvivevano più a lungo culti primitivi, più legati alla religione o folkloristici.

Sappiamo da S. Agostino e dagli altri Padri più antichi che la Fortuna rimase lungamente “viva” – e in realtà, fino al presente, non si è mai estinta – presso le popolazioni europee medievali, e non solo come figura letteraria, nonostante le continue allusioni e la quasi meccanica ripetizione delle formule a essa comunemente associate: gli scrittori, dopo tutto, dovevano costantemente mantenere un rapporto col pubblico, scrivevano, nella maggior parte dei casi, per un pubblico, e da questo, e insieme dalla cultura popolare, riprendevano e forgiavano spregiudicatamente tematiche e motivi fortemente ricorrenti, a inquadrare un modello di vita esistente o auspicabile, da cui trarre insegnamenti e riflessioni.

Nel periodo precristiano la Fortuna non era sempre inquadrata nell’accezione di casualità, sorte, anzi il termine stesso non sembra indicare specificazioni particolari entro il generale concetto di Fato. Anche a livello morfologico-lessicale, dalla radice indoeuropea *bher sarebbe derivato il sostantivo Fors, da cui Fortuna per aggiunta del suffisso -nus, a indicare appartenenza (esattamente come Romanus per Roma). Il fatto che la Fortuna fosse strettamente legata al Fato sottolinea come lo sviluppo del termine possa essere legato al concetto ellenistico di Tuchè. Che il Fato operi in modo casuale, capriccioso è però un’aggiunta successiva: si oscilla quindi da un periodo in cui si vede l’universo dominato da un ordine, per cui Fortuna è equivalente a Fatum, un destino già scritto e ineluttabile, di cui la Fortuna si fa portatrice, a un altro nel quale emerge più preponderante il capriccio per cui Fortuna è associata alla casualità. Per quanto riguarda il Medioevo, è importante osservare come, alla fine del periodo classico, fosse accettata più comunemente la seconda posizione, come testimoniano già Ovidio nei Tristia – “Fortuna volubilis errat et manet in nullo certa tenaxque loco” – e Plinio il Vecchio nella Historia Naturalis. Plutarco (De Fato) richiama la filosofia aristotelica, dimostrando l’esistenza della Fortuna dipingendola come la causa per accidens, necessaria all’esistenza del libero arbitrio: perciò essa possiede una base razionale senza esserlo però totalmente, in quanto non è in alcun modo legata alla ricompensa della virtù né alla punizione dei vizi.

Nel periodo imperiale, il concetto di Fortuna era dunque completamente legato alla casualità: l’ambizione di conquiste territoriali senza limiti spingeva verso l’ignoto, il rischio, che naturalmente implicava la casualità degli eventi; oltretutto, proprio dal venire in contatto con culture sempre diverse e la predisposizione a mantenere i culti religiosi dei popoli conquistati, coi quali molte volte il culto romano finiva sincreticamente per fondersi, lo “scetticismo” religioso era piuttosto generalizzato, quindi la profondità spirituale, il rapporto con la divinità, non era mai comparato né mai contrastava con la dea Fortuna, regina capricciosa. Al contempo, l’uomo romano, sentendosene in balia, cercava però di limitarne i poteri, opponendole la forza del coraggio, della saggezza, della virtù, di fatto prendendo la direzione che negava l’esistenza stessa della Fortuna: un punto di contatto con la cultura cristiana successiva.

Certamente il passaggio dalla Fortuna Dux alla concezione cristiana, con la presenza di Dio e la suprema importanza della virtù, non fu rapida, né omogenea, né immediata: in realtà non si può affatto dire che la religione cristiana abbia soppiantato la Fortuna nel pensiero come nell’agire umano. “Le popolazioni, che poco comprendevano e ancor meno si interessavano alle sottili dispute e sottilissime distinzioni operate da teologi e filosofi, non abbandonarono mai la fede in uno o più poteri, occulti e irresistibili, distinti e separati dalla volontà divina, e variamente designate coi nomi di destino, fortuna o influenza astrologica” (Arturo Graf).

Natualmente, la dea Fortuna continuò il proprio percorso non senza aggiustamenti: i Padri della Chiesa le avevano “dichiarato guerra”, non combattendola più solo con fortezza d’animo, prudenza, con l’aiuto della filosofia, o della virtù, ma negandone a chiare lettere l’esistenza, reinterpretando allo stesso modo anche l’argomento aristotelico della causa per accidens. Così leggiamo in S. Agostino, Lattanzio, S. Tommaso d’Aquino: la Fortuna è identificata per lo più con lo spirito del Male, insieme a tanta altra parte della cultura pagana.

Ma la concezione più paganeggiante della dea continua ugualmente a esistere, emergendo anche nell’Anticlaudianus di Alano di Lilla – dove comunque la descrizione oscilla spesso e confusamente dall’immagine della divinità alla mera personificazione dell’idea astratta, ma pur sempre riappare nella sua forma pagana. Ancora, altri autori, su tutti Boezio, tenevano presenti sia la figura di Dio sia quella della Fortuna, senza preciso intendimento di conciliare le due concezioni: la casualità rende possibile il libero arbitrio, ma il fato è subordinato a Dio, così come la casualità stessa, originata da cause ignote, è soggetta alla Provvidenza divina.

L’idea del De consolatione boeziano è riportata e poeticizzata da Dante, il quale ancora una volta sincretizza il concetto pagano e quello cristiano, come è evidente da Inferno, VII, 67-96: “[…]Colui lo cui saver tutto trascende/ […] alli splendor mondani/ ordinò general ministra e duce/ che permutasse a tempo li ben vani/ […] oltre la difension di senni umani;/ […] Vostro saver non ha contasto a lei:/ questa provede, giudica e persegue/ suo regno come il loro li altri dei./ Le sue permutazion non hanno triegue;/ necessità la fa esser veloce; […]”.

Nel periodo successivo a Dante, le posizioni si attestano sempre sui tre filoni principali che vedono la Fortuna come la divinità con le sue caratteristiche pagane, come la forza che coesiste con Dio (ma al Creatore è subordinata), oppure ancora come l’intelligenza celeste che determina gli influssi astrali sull’animo umano (che ritroviamo ancora una volta in Dante, in Convivio II, Purgatorio XVI e Paradiso VIII). Nel Petrarca del De remediis utriusque fortunae ad esempio emerge la conflittualità che oppone al capriccio della Fortuna la fortezza d’animo e la devozione spirituale; ancora Petrarca, in una concezione solidamente agostiniana, tornerà sulla questione anche nell’epistola a Tommaso del Garbo (Seniles I, VIII, 3): “[…]la Fortuna ho sempre stimato esser nulla […]”; ancora Boccaccio evolve il proprio concetto da quello ovidiano di Fortuna volubilis a un’idea più strettamente cristiana, mai però dimentica dell’elaborazione dantesca, che riemerge anche in Pico della Mirandola.

Durante Umanesimo e Rinascimento torna preponderantemente al suo splendore la Fortuna come divinità paganeggiante, così come la ritroviamo, tra gli altri, in Machiavelli e Guicciardini, ancora in Pulci, Boiardo e Poliziano.

Strettamente legati all’ambito italiano sono naturalmente quello inglese e francese, all’interno dei quali sopravvive ancora la concezione paganeggiante e si profila ugualmente un attestarsi delle posizioni dalla negazione cristiana all’immagine sincretica dantesca. In Francia, ad esempio, in testi come il Roman du Renart e nelle opere di Chretien de Troyes è fondamentale la non opposizione tra Dio e la Fortuna, ma anzi che essi operino in qualche maniera d’accordo, concezione che diventa ancora più forte ne La Manekine di Philippe de Beaumanoir – dove Dio consente alla Fortuna di governare il mondo -, in un dialogo tra la Fortuna e Pierre de la Broche – dalle forti reminiscenze boeziane – e nell’opera di Watriquet de Couvin, all’interno dei quali si vede la Fortuna totalmente soggetta alla volontà divina. In particolare Watriquet de Couvin descrive l’Avventura piuttosto che la Fortuna (ma in realtà entrambe rappresentano la stessa idea, anche la Fortuna per esempio in ambito italiano ma soprattutto francese era nominata spesso Ventura) dando esplicitamente l’idea del rapporto che sussiste tra Dio e la divinità capricciosa: “[…] Frère, on m’apele Aventure,/ en terre m’a Diex establie;[…]”.

Nella letteratura francese fiorisce anche il concetto della Fortuna come divinità d’amore: ad esempio in Panthère d’Amours di Nicole de Margival, Les echecs amoureux, ancora nelle opere di Guillaume de Machaut, Froissart, Deschamps e altri. E il rapporto tra Fortuna e Amore si rivela essere assolutamente dinamico, tanto che Amore non può dirsi mai completamente soppiantato, totalmente in balia della Fortuna. Certo è che, però, pur non sostituendosi al dio dell’Amore, la Fortuna può prodigare o trattenere per sé, a suo giudizio, ricchezze e gloria che certamente avvicinerebbero più facilmente l’amante all’amata. I ruoli delle due divinità tendono talvolta a intrecciarsi tanto da confondersi forse perché l’affinità tra le due è parecchio accentuata ed evidente, già riconosciuta tra XI e XII sec da Ildeberto di Lavardin nel De infidelitate Fortunae et Amoris mundi: Amore e Fortuna sono entrambi senza fede, non danno dolcezza senza tormento, affanno. La Fortuna solleva gli uomini e li sprofonda un attimo dopo, così come l’Amore li blandisce e poi li brucia, li uccide. Altri autori posero tuttavia una distinzione netta tra Fortuna e Amore, per cui la prima si trovava a ostacolare l’operato dell’altro – esattamente come nel caso di Raimbaut d’Aurenga, nel componimento in testa all’articolo, o come anche Arnaut Daniel, anche se non così apertamente dichiarato come per il suo auctor, di cui conosciamo il malastre amoroso dalla vida, dalla tornada di Ab gai so e ancora da Amors e jois e temps e luecs.

Oppure, ancora, spesso le due divinità così affini si trovano a operare insieme, entrambe accusate di causare le pene degli amanti, come ne Li romanz de la Poire. Ma già in questo caso, e ancor più nel già citato Panthère d’Amours, la Fortuna sembra prendere il sopravvento totale sull’Amore: le questioni amorose si decidono sul giudizio di Fortuna, così come questa prende il controllo della Corte d’Amore e la rende propria. Forse il primo, più antico, esempio della preponderanza della dea si trova già nell’epistolario di Abelardo ed Eloisa (lettera IV): la Fortuna separa gli amanti, dopo averli uniti, e provoca in loro atroci sofferenze. Da questo momento in poi, Fortuna si immischia di peso nelle questioni amorose: aiuta gli audaci, guida gli amanti, li unisce e li fa innamorare, fa in modo che consumino il loro amore, fa nascere i loro figli. E’ Boccaccio, nell’Elegia di Madonna Fiammetta, a descrivere i metodi della Fortuna, portando l’attenzione sul fatto che generalmente essa, dopo averli spinti l’uno nelle braccia dell’altra, si pone contro uno o entrambi gli amanti. Ha il cuore duro, invidioso, ostile, e finisce col tormentarli, portandoli fino alla separazione. In questo modo, quindi, Fortuna finisce col disfare ciò che Amore ha creato, e tale rapporto tra le due divinità non è certo casuale, tanto che in molti modi le sue caratteristiche vanno a ricalcare quelle di Amore. Anche Fortuna è cieca, incostante e capricciosa, e rifila frecce alle sue vittime. Arriva così il momento in cui l’identificazione e l’interscambio divengono così pressanti da identificare, quasi sostituire, Venere e sua sorella Fortuna, tanto che ne Les echecs amoureux (databile al XV sec), si vede Venere girare una ruota, esaltando o svilendo l’umanità.

Ma facciamo un momento un passo indietro per parlare ancora delle caretteristiche, della descrizione vera e propria e delle attività della Fortuna, così come si stabiliscono e variano nel corso del Medioevo. Intanto, è necessaria una distinzione, seppur sottile, di base: la personificazione del concetto astratto di fortuna – perciò appunto la buona fortuna, salute, ricchezze et similia – non implica certamente che la Fortuna sia una dea, anzi personificazione e divinità tendono spesso, erroneamente, a essere confuse, quasi sovrapposte – a indicare forse una poco chiara conoscenza della divinità da parte degli Autori che facevano confusione. Un discrimine importante tra le due può essere certamente la qualità dei doni: mentre la personificazione si qualifica dai doni – perciò è assimilabile a un tipo – la divinità esiste di per sé, non in quanto prodiga di beni per lo più materiali. La dea Fortuna può dare o togliere, secondo il proprio capriccio; è puramente simbolica; inoltre non soffre del suo stesso operato, come invece è più probabile pensare della personificazione: a tal riguardo è senz’altro utile riferirsi a quelle rappresentazioni grafiche, in cui spesso è coinvolta anche la ruota della fortuna (di cui si parlerà più avanti), nelle quali si vede la figura della fortuna come intrappolata nel movimento della ruota stessa, quindi soggetta a un controllo certamente improbabile per una divinità.

Un ambito altrettanto variabile è quello delle descrizioni letterarie della Fortuna: non di rado le vengono attribuite due facce, una bellissima, l’altra orribile, le quali probabilmente rappresentano, insieme all’espressività facciale della dea, che può sorridere o essere accigliata, l’imprevedibile e continuo mutamento d’umore, da cui dipendono i rivolgimenti che colpiscono gli uomini. Ancora, soffermandoci sempre sul viso della divinità, possiamo trovarla “dipinta” cieca oppure bendata, a sottolineare come il merito non abbia peso nelle sue decisioni, ma i suoi occhi possono talvolta apparire, significativamente descritti l’uno gioioso, sorridente, l’altro in lacrime. Collegata alla simbologia degli occhi c’è quella delle mani, per cui queste possono essere molte o differenziarsi l’una dall’altra: così come il viso va a dividersi in destra e sinistra, anche le mani operano separatamente, rispettivamente la destra in direzione del bene e l’altra verso il male. Questa particolare associazione destra-bene, sinistra-male si collega a tanta parte della cultura classica naturalmente assimilata e reinterpretata dalla cultura medievale: nel primo caso si collegava al moto apparente del Sole nel cielo, sorgente a est, a destra dell’orizzonte, per cui la via di destra era quella illuminata, lontana dall’errore, dal male appunto. Analogamente la cultura cristiana associa il sorgere del Sole, la presenza della luce, alla Luce divina, la Giustizia, l’infallibilità, il bene. Esempio particolarmente evidente lo abbiamo ancora in Dante, nei versi incipitari dell’Inferno: “[…] mi ritrovai per una selva oscura/ che la diritta via era smarrita/[…]” (Inferno, I, 2-3) e “[…] tant’era pien di sonno a quel punto/ che la verace via abbandonai/[…]” (Ivi, 11-12); qui, ancora sottolineando la mente estremamente sincretica del Poeta, la diritta come la verace via rappresentano lo stesso concetto: la “via di destra” come via del bene, declinato secondo la cultura cristiana o quella classica; non a caso, infatti, ponendo se stesso in antitesi con la figura di Ulisse (Inferno XXVI), Dante descrive il condottiero greco che procede “sempre acquistando dal lato mancino” (v. 126), procedendo quindi verso la perdizione.

Ancora, tornando alla descrizione della Fortuna, la troviamo spesso dotata di ali, sempre sospesa a mezz’aria. Anche la postura diventa significativa e simbolica per ciò che la dea rappresenta: che si trovi in piedi su una sfera o ancor più sulla sua ruota, è importante sottolineare l’instabilità e i continui cambiamenti cui essa capricciosamente si rivolge. Per quanto riguarda le sue vesti, queste naturalmente cambiano di Autore in Autore: per esempio Boccaccio, nel De casibus, la descrive di “mollisque cutis, roseus color, ac purpurea vestis”. Nel portamento e nelle maniere, così come nel volto, la Fortuna può apparire insieme gentile e scortese: il suo carattere rivela orgoglio, tendenza alla collera, malingnità. Nel dar corpo alla propria volontà è ingannevole e disonesta, profondamente invidiosa della prosperità umana, incostante e irrazionale. La sua caratteristica mutevolezza porta subito alla mente il paragone con la luna e la sua influenza sul moto delle maree, così come la slealtà richiama l’analogia con i serpenti o, meglio, con gli scorpioni.

Soffermiamoci ora sul principale simbolo associato alla dea Fortuna, la ruota, che rappresenta al contempo la variabilità, l’instabilità, il capriccio della divinità così come il controllo da questa esercitato sulle vicende umane. Ritroviamo la figura della ruota nelle più disparate varianti all’interno dei codici medievali, associata sì alla Fortuna ma che di per sé rimanda già a un campo semantico vasto: quello della velocità, dell’incessante procedere circolare dell’esistenza, del cambiamento, e ancora il Sole, la Terra, Dio, l’eternità. E’ probabile che questo tipo di simbolismo possa essersi legato alla Fortuna partendo dal concetto fondamentale di instabilità, per poi allargarsi e specializzarsi col procedere della cultura. L’immagine della Fortuna in bilico su una sfera risale all’iconografia della Roma antica e da qui proviene alla cultura medievale sempre fondandosi sull’instabilità degli eventi, ma non possiamo cogliere una vera e propria allegoria dell’attività e in generale della Fortuna come divinità finché la ruota stessa diventa simbolo di variabilità, eventualmente messa in moto proprio dalle mani della dea. Una prima connessione tra la divinità capricciosa e le sorti degli uomini emerge però per esempio in Ammiano Marcellino (Res gestae): “Fortuna volucris rota, adversa prosperis semper alternans”; o ancora in Seneca (Agamemnon): “Ut praecipites regum casus Fortuna rotat!”, dove sembra più specifica l’azione che la Fortuna compie nel “ruotare” gli affari umani in virtù dei propri poteri. Andando oltre, tra V e VI sec d.C., la ruota non è più considerata indipendentemente dalla dea; ancora nel De consolatione Philosophiae boeziano, l’idea che la Fortuna controlli i movimenti della ruota, che questa arrivi a simboleggiare il capovolgimento della realtà, che figure umane si trovino sulla ruota a seguirne le rotazioni frenetiche, è riportata come se fosse del tutto “familiare”, quindi un dato culturale consolidato, e così rimarrà a distanza di secoli, nonostante manchino quasi del tutto i riferimenti fino a Dante.

In realtà esisteva anche una ulteriore concezione del moto della ruota, ravvisabile nello Speculum Ecclesiae di Onorio d’Autun – il quale si rivela apperentemente debitore di una tradizione altrettanto consolidata –, per cui la Fortuna non ha alcun potere sulla ruota, anzi viene trascinata dai movimenti di questa, seguendo e soffrendo proprio come gli uomini i suoi rivolgimenti. Sulla base di queste considerazioni, si nota però facilmente come l’immagine della Fortuna che soffre se stessa, in balia del corso degli eventi così com’è scandito dalla ruota, non può essere direttamente riconducibile alla divinità, quanto piuttosto al tipo.

Quindi, ripartendo dalla fonte boeziana, nel Medioevo, sulla scorta dell’evoluzione della figura attraverso la classicità, la ruota era indissolubilmente legata alla Fortuna, che ne ha pieno controllo, causando così a suo capriccio veri e propri capovolgimenti non solo nelle vicende umane ma per l’umanità stessa: in questo senso, la ruota potrebbe rappresentare metaforicamente due concetti. Innanzitutto, il movimento potrebbe essere relazionato ai “doni” della Fortuna: così come la ruota gira, gli eventi e la vita cambiano, ma non sappiamo mai come, né con quale criterio – il che è riconducibile ancora all’aspetto fisico della dea, cieca o meglio ancora bendata. Ancora, il fatto che gli uomini stessi prendano parte al movimento della ruota segue l’idea che non solo le vicende ma anche gli stessi status umani possano cambiare improvvisamente: particolarmente significativa è in questo senso una delle tematiche legate alla simbologia della ruota, che vede in particolare quattro figure umane seguire il movimento circolare: un giovane incoronato e con uno scettro tra le mani seduto sulla cima della ruota; alla sua destra, un uomo che precipita, mentre la corona cade dalla sua testa; nella pare più bassa un uomo completamente prostrato; risalendo verso sinistra, di nuovo un giovane che cerca di arrampicarsi lungo la ruota, estendendo le braccia verso il giovane coronato sulla cima. Fungevano da “didascalie” agli uomini rappresentati rispettivamente le locuzioni: regno, regnavi, sum sine regno, regnabo; perciò la relazione tra l’umanità sulla ruota e il proprio status veniva espresso secondo una sorta di gerarchia che mirava probabilmente a riprodurre l’ordine sociale. E non è un caso che questa particolare tipologia iconica fosse estremamente diffusa e nota nella cultura medievale, così come non è un caso che si adatti precisamente all’ambiente delle taverne di cui prima si parlava: l’uomo che perde la corona, quello del tutto prostrato, quello che ambisce al potere sono tutti esempi di giocatori, che secondo la volubilità della Fortuna vincono, o più spesso perdono, ciò che hanno insieme al proprio status sociale, incarnazione della simbologia legata alla Fortuna e tramiti principali della stessa attraverso gli anni.

Entrambi i significati metaforici appena espressi implicano l’idea che il movimento della ruota possa non essere continuo, che questa possa fermarsi e poi riprendere il proprio corso: in realtà è difficile crederlo, come asseriva già Boezio, o se anche si potessero ipotizzare delle pause nei movimenti, la Fortuna, in quanto divinità, non necessariamente agisce sempre attraverso la ruota, sebbene questa sia il suo strumento principale. L’idea della continua dinamicità delle vicende umane ci è suggerita forse ancora più realisticamente dalle taverne stesse, che continuamente si trovavano a esser teatri di rivolgimenti sociali, tanto da far bandire il gioco dei dadi – ancora una volta facente parte della simbologia della Fortuna – proprio per questioni di ordine sociale: quasi impossibile pensare, in questo caso, per una mentalità e una cultura enciclopedica, organica, simbolica e così fitta di rimandi come quella medievale, a una soluzione diversa che non preveda l’intervento della Fortuna. Intervento che, ampliandosi oltre il dato contingente, rivolta tanto lo status sociale quanto i sentimenti dell’uomo: ognuno può singolarmente, moltiplicando il numero delle ruote, descrivere i propri rivolgimenti, le proprie ascese – e anche gli sforzi per godere più a lungo dell’ascesa: non bisogna dimenticare che l’uomo poteva in un certo senso “sfidare” la Fortuna per cercare di mantenere i vantaggi che gli erano pervenuti, concezione a cui forse si può far risalire il detto proverbiale che la Fortuna aiuta gli audaci – e discese, fino a quella primaria, il percorso che va dalla vita alla morte, quel circolo della vita che tanto si avvicina alla simbologia della ruota della Fortuna, che davvero non può che assumere una fondamentale importanza nel pensiero ma anche nella praticità dell’uomo.

Abbiamo fin qui ricostruito una sorta di percorso storico della figura della Fortuna e le sue caratteristiche e simbologie principali. Concentriamoci ora, invece, su quale potesse essere la concezione della Fortuna per Arnaut Daniel, così come possiamo desumerla dai suoi studi in primis e dall’opera sua e degli altri trovatori per lui auctoritates o contemporanei.

Partiamo dalla formazione: in quanto escolier che amparet ben letras, Arnaut aveva letto e conosceva sicuramente a fondo per lo meno quegli auctores, sia pagani che cristiani, normalmente inseriti nei canoni, nei programmi scolastici. Considerando che l’attività poetica del trovatore perigordino viene abbastanza concordemente situata tra gli anni 1180-1200 circa, e di conseguenza la sua nascita non dovrebbe essere anteriore agli anni tra il 1150 e il 1160, vediamo i canoni scolastici di auctores del XII sec., in particolar modo quelli della seconda metà del secolo, “riformati” e notevolmente ampliati rispetto ai precedenti (Curtius, 1995): se entro la prima metà – secondo un elenco riportato da Corrado di Hirsau – autori già rilevanti nell’elaborazione dell’idea di Fortuna in Arnaut erano già Boezio, Isidoro, Virgilio, Cicerone e Ovidio, bisogna però sottolineare che degli ultimi due venivano letti per lo più solo il De amicitia e il De senectute e i Fasti e le Epistulae ex Ponto. Se guardiamo invece a un elenco – attribuito ad Alessandro Neckman – di meno di mezzo secolo più tardi, troviamo il più probabile fondamento per la concezione arnaldiana: il repertorio ovidiano è notevolmente ampliato (quindi probabile è anche l’inclusione dei Tristia, prima citati) così come quello ciceroniano (fondamentale in questo senso è l’adozione come testo scolastico anche del De officiis); figurano nuovamente anche Isidoro, Boezio e Virgilio accanto ad altrettanto importanti inclusioni come l’Anticlaudianus di Alano di Lilla e l’opera di Seneca (sia morale che tragico, allora e ancora per Dante considerati due autori distinti) e di Plinio il Vecchio. Naturalmente gli elenchi riportati sono ancora piuttosto riduttivi rispetto al repertorio realmente disponibile e studiato, a cui i letrat avevano accesso, fitto anche di scrittori più contemporanei, tra cui particolarmente importante, non iscritto negli elenchi ma certamente già auctoritas, è Pietro Abelardo.

Possiamo quindi ragionevolmente supporre che, sulla base di questi auctores già citati ed esaminati precedentemente, Arnaut Daniel conoscesse la Fortuna come divinità capricciosa che fa girare la propria ruota rivoltando lo svolgimento degli affari mondani: un’immagine nitidissima in Canso do ill mot son plan e prim, vv. 20-24: […] qu’ades trabuca son senhor/ del luec aussor/ bas el terralh/ per tal trebalh/ que de joi lo despuelha […], in probabile riferimento, insieme alla frequentazione delle taverne, all’iconografia della ruota più diffusa precedentemente descritta, dove l’alternarsi dei destini umani è simboleggiato nelle locuzioni regno – regnavi – sum sine regno – regnabo. La dea si trova però spesse volte confusa con la personificazione dell’idea generica di “buona fortuna”, esattamente come per gli Autori cristiani che integravano le caratteristiche paganeggianti con la dipendenza da Dio. Ulteriore conferma di ciò viene dalla grande diffusione, tra le generazioni trovadoriche e nella letteratura di area francese in generale, del concetto di Aventura, sostanzialmente sinonimo di Fortuna, anche se più spesso associato proprio con la personificazione piuttosto che con la dea vera e propria: nell’opera di Arnaut non troviamo ricorrenze del termine – ne troviamo però di un altro strettamente collegato, l’escarida (in Anc ieu non l’ac, vv. 6-11: […] Amors comanda/ qu’om la serv’e la blanda:/ per qu’ieu n’aten/ sufren/ bona partida/ quan m’er escarida […]; e in ripresa intratestuale in Quan chai la fuelha, vv. 21-24: […] no sai de re/ coreillar m’escarida,/ que per ma fe/ del mielhs ai ma partida […]), il destino, anche nell’accezione più ampia di “corso degli eventi”, quindi controllato dai rivolgimenti di Fortuna – mentre aventura ricorre spesso in un contesto che possiamo certamente definire “arnaldiano”, in particolare in Marcabru, Bernart de Ventadorn, Raimbaut d’Aurenga e Arnaut de Maroill.

Nella grande maggioranza dei testi in cui si verifica l’occorrenza prevale l’identificazione della dea con la personificazione del concetto di “buona fortuna”, come possiamo notare nei seguenti esempi:

Marcabru (293, 28, cobla III, vv. 17-21):

“[…]per qu’ieu no·m planc mon dampnatge?

Qu’aitals es ma destinada

que Joys e Bon’Aventura

mi tolh un pauc de rancura

que m’es ins el cor assiza […]”

Qui, oltre l’evidente personificazione – anche se le lettere capitali sono del tutto arbitrarie, in quanto nei codici non si trovano se non in rarissimi casi – è importante sottolineare come la canzone di Marcabru sia vicina sempre a Quan chai la fuelha proprio per il suo essere “canzone invernale”, in cui il poeta sottolinea la continuità del suo canto nonostante la mancanza di vita nella natura: “[…]Ara perdon l’alegragge/ pel frey e per la gilada,/ mas ieu ai pres tal uzatge/ totz jorns chant […]” (sempre Lanquan foillon le boscatge, vv. 7-10).

Bernart de Ventadorn (70, 13, cobla II, vv. 10-18):

“[…] domna, […]

ab vos remanh et ab vos vau.

e sapchatz que de vos me lau

assatz mais que no sai grazir.

be conosc que mos pretz melhura

per la vostra bon’aventura;

e car vos plac que·m fezetz tan d’onor

lo jorn que·m detz en baizan vostr’amor,

del plus, si·us platz, prendetz esgardamen!

Notiamo in questa canzone ancora un importante riferimento all’inverno, anche se molto più metaforico, come ai vv. 3-6: “[…]Eras, pus negus no s’esjau/ E pretz e donar vei morir,/ No posc mudar no prenha cura/ D’un vers novel a la frejura […]”, oltre – come ulteriori motivi comuni all’opera arnaldiana e non solo – il motivo del premio da parte della donna, il baizar che anche Arnaut chiede in Ab gai so per restaurar ‘l maltrait.

Bernart de Ventadorn (70, 24, cobla II, vv 9-16):

Ges d’un’amor no·m tolh ni·m gic,

don sui en bon’aventura

[…]

car sui tengutz per fin amic

lai on es ma volontatz;

que […]

(ni) d’autra no sui en cura […]”

Ancora un testo importantissimo e senza dubbio vicino a Quan chai la fuelha: in questi versi sembra realizzarsi, a livello di nostra traduzione, l’identificazione, o quanto meno lo strettissimo legame, tra aventura ed escarida. Bernart de Ventadorn si dice in questa canzone en bon’aventura, dunque fortunato, proprio perché è fin amic proprio per colei che lui stesso ama e per tal ragione non si cura delle altre donne, sequenza che ritorna anche nei versi arnaldiani sopra citati: “[…] no sai de re/ coreillar m’escarida/ que per ma fe/ del mielhs ai ma partida […]” (vv. 21-24) e ancora, più avanti, “[…] autrui paria/ trastorn en reirazar […]”, formula quest’ultima ancora una volta non dimentica tanto del concetto di Fortuna, quanto del vizio del gioco proprio di Arnaut, come sarà specificato più avanti.

Bernart de Ventadorn (70, 30, cobla VI, vv. 36-42):

Pero ben es qu’ela·m vensa

a tota sa volontat,

que, s’el’a tort o bistensa,

ades n’aura pietat;

que so mostra l’Escriptura:

causa de bon’aventura

val us sols jorns mais de cen […]”

Significativi anche questi ultimi versi, in quanto ritornano motivi legati alla poetica arnaldiana: intanto che il poeta sia vinto del tutto dall’amata (“[…] ‘l sieu cors sobretrasima/ lo mieu tot e non s’aisaura:/ (tan) n’a de ver fag renueu […]” per citare un esempio in Ab gai so); ancora, già dall’incipit della canzone di Bernart, la mutevolezza delle circostanze contingenti (ancora una volta motivo questo legato al moto della ruota della Fortuna); i riferimenti, nel corso di tutto il componimento, al gioco e all’escola: anche nei versi citati, l’Escriptura – di nuovo la maiuscola è arbitraria dell’editore, Appel, 1915 – più che alla Sacra scrittura potrebbe forse essere riferita, proprio per la presenza stessa dell’escola, pochi versi addietro, ai testi degli Auctores studiati a scuola, in particolare, forse, gli stessi che abbiamo già visto significativi anche nella formazione di Arnaut (Isidoro, Boezio, Abelardo).

Ma per completare la definizione del concetto arnaldiano di Fortuna è necessario considerare intanto la già evidenziata concezione goliardica, ma anche e soprattutto l’ambito d’indagine più tecnico proprio della trattatistica. Facciamo in questo caso riferimento al Libro de los juegos commissionato da Alfonso X El Sabio: la bontà del riscontro parte da una quasi identità a livello di locuzione così, come prima si diceva, come la ritroviamo ancora una volta in Quan chai la fuelha, vv. 25-28: De drudaria/ no m sai de re blasmar,/ qu’autrui paria/ trastorn en reirazar […]. In particolare l’ultimo verso ha generato diverse discussioni riguardo la sua interpretazione, specie in ragione della totale diffrazione della tradizione manoscritta al riguardo: la canzone è riportata complessivamente in quattro manoscritti (C, E, a, ψ), con le lectiones che variano da Torn ieu en razonar in C, a Terra tornen reizarar in E, fino a Tron torn a reirazar in a e Torn en reire azar in ψ. Trastorn, come chiarisce Eusebi, è congettura di Bartsch: si tratta però di un termine senza ulteriori riscontri nella lirica occitanica, se non come hapax arnaldiano. Più plausibile sarebbe invece la lectio di ψ, sulla quale si potrebbe congetturare ulteriormente rendendola Se torn en reirazar, proprio facendo riferimento al Libro de los juegos, in particolare al passo, nel Libro de los dados, dedicato all’azar, il più diffuso gioco coi dadi:

“[…] Otra manera hay de juego que llaman azar, que se juega en esta guisa. El qui primero oviere de lançar los dados, si lançare quinze puntos o dizeséys o dizesiete o dizeocho o la soçobrasd’estas suertes, que son seys o cinco o quatro o tres, gana.E qualquiere d’estas suertes […] es llamad<a> azar. E si por aventura no lança ninguno d’estos azares primeramientre e da all otro por suerte una d’aquellas que son de seys puntos a arriba o de quinze ayuso […] e depués d’estas lançare alguna delas suertes que aquí dixiemos que son azar, esta suerte será llamada reazar e perderá aquel que primero lançare. E otrossí, si por aventura no lançare esta suerte que se torna en reazar […] converná que lançen tantas vegadas fasta que venga una d’estas suertes […]”.

La semi-identità di locuzione connota perciò il verso arnaldiano nel preciso contesto del gioco, certamente non sconosciuto al trovatore. Ma è importante proseguire nell’analisi generale del Libro alfonsino per inquadrare il significato più ampio del gioco e del malastre in un contesto che è successivo a quello di Arnaut Daniel – infatti il Libro de los juegos è stato completato, come risulta dall’explicit del codice, nel 1283 – ma certamente non dissimile da quello proprio del trovatore perigordino.

Intanto, per quanto riguarda le notizie più generali, un concetto basilare nel trattato commissionato da Alfonso X è l’alegria, il sentimento di origine divina che è al centro di ogni esperienza ludica, da essa generato e in essa da ricercare. I giochi, al di là di questo dato comune, si differenziano in tre tipologie ampie: quelli che si svolgono a cavallo, quelli in piedi e quelli da seduti; al re Sabio interessano particolarmente questi ultimi perché possono esser praticati da tutti, e hanno pertanto una maggiore rilevanza e utilità sociale. Le sette parti in cui il trattato si divide (scacchi; dadi; tavole; varianti aumentate di scacchi, dadi e tavole; scacchi e tavole delle quattro stagioni; alquerques; scacchi e tavole astrologiche) sono legate da una cornice con funzione coesiva in cui si racconta una storia cui si allude all’inizio di ognuna delle parti: un re indiano – il quale, nell’ottica complessiva dell’opera, va identificato con Alfonso X stesso – aveva proposto a tre sapienti di riflettere su cosa valesse maggiormente tra Fortuna (Ventura, di nuovo) e Intelligenza (Seso). Uno si schiera dalla parte dell’Intelligenza e porta come prova gli scacchi, il secondo dalla parte della Fortuna provando la propria posizione con i dadi, il terzo sceglie una posizione intermedia, sostenendo l’importanza di entrambe, con le tavole, che rappresentano appunto l’unione degli scacchi e dei dadi.

Per quanto riguarda i dadi, che qui maggiormente ci interessano, bisogna immediatamente rilevare come con ogni probabilità questi non fossero ritenuti consoni a un sovrano: nelle miniature presenti nel pregevole codice del Libro, infatti, il sovrano non è mai raffigurato mentre gioca ai dadi. Rimanendo sempre nell’ambito grafico, è importante anche notare come le miniature abbiano un ruolo centrale nell’ottica complessiva del trattato, in quanto rappresentano la totalità sociale accomunata dall’alegria; importante è anche la similiarità rilevata con alcune miniature del Codex buranus che riportano, nell’ordine, tre scene di giochi di dadi, tavole e scacchi, seguendo perciò un ordinamento differente rispetto alla sistemazione del trattato ma non senza ragione riflettendo sulla centralità dei dadi nei Carmina Burana.

Protagonisti del gioco ai dadi nel codice del Libro de los juegos, se non il re, sono invece, più generalmente, i tafures – ovvero coloro che frequentan les cases de joc, jugadores, tablajeros – con altri personaggi di bassa condizione sociale o con i cavalieri rimasti nudi per aver perso tutto al gioco: per questa ragione, i giochi con i dadi sono i meno nobili fra quelli descritti nel trattato, seppure occupino un volume non indifferente, necessariamente da ricondurre, sebbene non fossero il fenomeno di costume più rilevante, alla grandissima diffusione di questa tipologia ludica negli ambienti tabernari e non solo, diffusione contrastata come ben sappiamo da continui divieti per evitare quegli sconvolgimenti sociali che i rivolgimenti di Fortuna, le perdite e le vincite portavano; ma non solo: i dados, esaminati con reale minuzia, quasi scientifica, fanno da collante tra la sezione degli scacchi e quella delle tavole che appunto fonde le due precedenti. Anzi, pare proprio che i tafures stessi abbiano fortemente voluto l’inclusione del Libros de los dados nel trattato alfonsino, così come questi avrebbero pressato Alfonso X per la redazione dell’Ordeniamento de las tafurerias, il codice giuridico che affrontava le questioni sul gioco d’azzardo; questi stessi personaggi ricorrono inoltre in diversi luoghi delle ugualmente alfonsine Cantigas de Santa Maria, in cui l’alegria su cui i giochi si fondano diventa tafureria, aborrita dalla Vergine. Da un’ulteriore opera commissionata dal Sabio emerge poi un dato importantissimo anche per la concezione di Arnaut Daniel, nostro principale motivo d’indagine: nell’Astromagia, infatti, la propensione al gioco è indicata come derivante dalle stelle, che diventa mal-astre nel caso del trovatore, sicuramente più ampiamente funzionale nel quadro complessivo della sua poetica e della concezione d’amore, come vedremo in seguito.

Perciò comprendere a pieno la simbologia legata ai dadi è importante per correttamente indagare tanto l’ideologia alfonsina quanto le metafore ludiche in contesti squisitamente letterari e metalinguistici come quelli di Arnaut. Dai dadi e in virtù dei dadi lo sguardo si allarga pertanto al progetto fondante il Libro de los juegos e ai rapporti tra le sue parti: il sistema dei giochi nel suo complesso è strumento, infatti, dell’intenzione di rappresentare in maniera totalizzante il mondo e il cosmo. In quest’ottica, scacchi e dadi sono i vertici opposti del sistema-cosmo che entrano in contrasto: i primi – che in un’ottica moraleggiante, non presente nel trattato alfonsino, pongono in relazione pezzi e mestieri o classi sociali – espressione della razionalità pura che esclude ogni intervento del caso, i secondi in antitesi perfetta. Si tratta di una contrapposizione più ampia, fondante per i sistemi filosofici e in generale nel pensiero e nella morale umana, quella tra predestinazione e libero arbitrio, tra necessità e caso, tra Sapientia e Fortuna, appunto tra Seso e Ventura, come nella cornice del Libro – a tal proposito, interessantissima è ancora una miniatura in un codice di Cambridge, dove la Fortuna da un lato indica la propria ruota con le parole: “Mundana casu aguntur omnia”, mentre la Sapienza dall’altro: “Nichil in mundu fit casu” – per la quale il trattato stesso ristabilisce una sorta di procedimento dialettico in cui scacchi e dadi rappresentano rispettivamente tesi e antitesi, mentre la sintesi vera arriva con le tavole, parte questa che dunque è la più importante, come punto d’arrivo, e che molto dice dell’attitudine alla mediazione del re Sabio, comprensibilmente a questo punto identificabile col re indiano della novella della cornice. Le tavole rappresentano dunque la possibilità di influsso razionale sul destino (il faber non in senso letterario ma generale, quello di un secolo e mezzo dopo) che non può non tenere in conto i rivolgimenti di Fortuna: non a caso, dunque, il trattato termina con le Tables que se juegan por astronomia, tavole di mediazione tra Seso e Ventura, in cui è importantissima anche – ed ecco ancora preponderante uno degli interessi di Alfonso X – l’influenza astrale sui destini umani.

E proprio su questa base, sulla rappresentazione della Fortuna, ha preso avvio questa ricerca. Attraverso il termine malastruc è possibile infatti istituire un filo conduttore ulteriore tra Raimbaut d’Aurenga e Arnaut Daniel: il conte d’Orange rappresenta sicuramente uno degli auctores del trovatore perigordino, e di ciò abbiamo una prima testimonianza dalle vidas di entrambi i trovatori: Arnaut Daniel che […] delectet se en trobar […] e pres una maniera de trobar en caras rimas […] così come Raimbaut d’Aurenga […] fo bons trobaires de vers e de chansons; mas mout se entendeit en far caras rimas e clusas. Ma non solo: dall’analisi del testo della vida di Arnaut e della chansò sopra proposta di Raimbaut, i due trovatori sono accomunati anche dal malastre in amore, malastre che ha un antecedente anche in Lanquan li jorn son lonc en mai di Jaufre Rudel (BDT 262,2), precisamente nei versi finali […]Mas so qu’ieu vuelh m’es atahis,/ qu’enaissi·m fadet mos pairis/ qu’ieu ames e non fos amatz. Infatti, il conte d’Orange si rivolge all’amata dicendole […] Dompna, per vos sui malastruc, car per malastre·m voletz mal […] mentre dalla vida di Arnaut Daniel sappiamo che […] amet una auta domna de Gascoigna […] mas non fo cregut que la domna li fezes plaiser en dreit d’amor; per qu’el dis – nella tornada di Ab gai so cuindet e leri –: Ieu sui Arnautz qu’amas l’aura/ e cas la lebre ab lo bueu/ e nadi contra suberna.

Il trovatore perigordino è però legato al malastre anche nello scambio tenzonesco di sirventesi tra Raimon de Durfort, Truc Malec e Arnaut stesso, per cui Raimon de Durfort scrive Pus etz malastrucx sobriers/ non es Arnautz l’escoliers,/ cui coffondon dat e tauliers, parlando perciò del malastre più goliardico, legato al gioco d’azzardo. Riflettendo sulle occorrenze dei termini astruc e malastruc nelle varie forme è forse interessante sottolineare come i generi poetici in cui questi ricorrono maggiormente siano proprio canzoni, sirventesi (anche, nel caso di Bertran de Born, il sirventes joglarescMailoli, joglar malastruc”), tenzoni, planh, albas, dove maggiormente l’attenzione ricade sul poeta, e conseguentemente sull’attività poetica in sé, che sia un giullare o che componga per la propria donna: infatti e piuttosto evidentemente, tornando alla chansò di Raimbaut d’Aurenga, l’insistenza sul termine malastruc o sull’astratto malastre – che oltretutto costituisce una parola-rima che lega i versi iniziali di tutte le coblas, mentre gli altri sono a rima unica – sta forse a denotare, oltre a una nota di scherno nei confronti del codice cortese ravvisabile in altri luoghi della produzione del conte d’Orange, una specificità più squisitamente letteraria, un sottolineare la coscienza della particolarità del proprio operato, come per i versi […] Mas non trob malastruc valen/c’a me de malastre·s prezen […] oppure […] E fis ben malastruc jornal,/ c’anc nuills malastrucs no·l fetz tal! […]. Tra l’altro, nello stesso testo, ricorrono le voci trop, trob, atrobes, qui traducibili col verbo trovare, ma che potrebbero anche equivocare col trobar vero e proprio. Della stessa coscienza si potrebbe naturalmente parlare per Arnaut Daniel, miglior fabbro del parlar materno – e sull’attività fabbrile la stessa già citata Ab gai so cuindet e leri è parecchio eloquente – proprio per la grande consapevolezza del proprio mestiere, che lo porta a sperimentare forme, stili e modi di trobar fino alla sestina. Un simile gioco letterario fondato sull’insistenza su un solo termine si ritroverà, infine, anche nella poesia italiana successiva, trovando alcuni esempi in Giacomo da Lentini (Eo viso – e son diviso – da lo viso, sonetto IX), Guittone d’Arezzo (Tuttor ch’eo dirò gioi, gioiva cosa), Panuccio del Bagno (Sovrapiagente gioia gioiosa), Guido Cavalcanti (Pegli occhi fere un spirito sottile).

Tornando ancora su Ab gai so cuindet e leri, perciò sull’attività fabbrile, artigianale, metaforica del trobar, e soprattutto di come questa sia un unicum con la concezione d’amore e il gioco, la fortuna nella taverna, è possibile citare ancora un componimento di Arnaut Daniel (BDT 29,1 – ne L’aura amara a cura di M. Eusebi è il componimento XIV) in cui egli stesso si definisce astruc, ma ancora non amatz:

Amors e jois e luecs e temps

mi fan tornar lo sen en derc

d’aquel joi* qu’avia l’autr’an

qan chassava lebr’ab lo bou:

ara’m va meils d’Amor e pieis,

car ben am, d’aizo’m clam astrucs;

ma Non-Amatz ai nom anquers

s’Amors no venz son dur cor e’l mieus precs.

Cel que totz bes pert a ensems,

mestiers l’es qe ric seignor cerc

per restaurar la perd’e’l dan,

qe’l paubres no’il valri’un ou:

per zo m’ai eu chauzit en leis

don non aic lo cor ni’ls oils clucs,

e pliu’t, Amors, si la’m conqers,

trevas tostemps ab totas fors dels decs.

Pauc pot hom valer de joi sems;

per me’l sai que l’ai agut berc,

car per un sobrefais d’afan

don la dolor del cor non mou

-e s’ab joi l’ira no’m foreis…-

tost m’auran mei paren faducs;

pero tal a mon cor convers

q’en leis amar volgra morir senecs.

Non sai om tan si’en Dieu frems,

ermita ni monge ni clerc,

com ieu sui seleis de cui chan,

e er proat anz de l’annou;

liges sui seus meilz qe demeis,

si’m for’eu si fos reis o ducs:

tant es en lieis mos cors esmers

qe s’autra’n voil ni’n deing donc si’eu secs.

D’aizo c’ai tant duptat e crems

creis ades e meillur e’m derc,

que’s reproers c’auzi antan

me dis que tan trona tro plou;

e s’ieu mi pec cinc anz o seis,

ben leu, can sera blancs mos sucs,

jauzirai zo per qu’er sui sers,

c’aman preian s’afranca cor ufecs.

De luencs suspirs e de grieus gems

mi pot trar cella cui m’aerc

c’ades sol per un bel semblan

n’ai mogut mon chantar tot nou.

Contramon vauc e no m’encreis,

car gent mi fai cujar mos cucs.

Cor, vai sus! ben fas si’t suffers:

sec tant q’en leis c’as encubit no’t pecs.

Ans er plus vils aurs non es fers

c’Arnautz desam leis ont es fermanz necs.

* D’obbligo una precisazione: Eusebi accoglie a testo la lectio joi, specificando nella nota sottostante: “[…] le correzioni proposte (Canello noi, Lavaud – e Toja – fol) non persuadono: si deve forse intendere “giogo” nel senso di tormento”. In realtà – considerando che nella stragrande maggioranza delle occorrenze nella lirica trobadorica joi è sempre il joi, l’aspirazione massima di ogni poeta – forse entrambe le congetture contestate potrebbero essere accolte a testo, in particolare quella proposta da Lavaud poi ripresa anche da Toja, tenendo presente che l’antitesi ben amar e follia è piuttosto frequente, comunque salda, quasi proverbiale, e che si potrebbe citare in questo senso ancora una canzone arnaldiana, Ans que sim reston de branchas, che costituisce, insieme a quella appena proposta e ad Ab gai so, una sorta di miniciclo interno all’opera del trovatore perigordino, come si vedrà chiaramente più avanti.

Iniziamo dalle caratteristiche formali del componimento e dalla sua tradizione: il testo compare nei manoscritti T, a e ψ, nel quale però mancano le prime due coblas. La struttura metrica è tipicamente arnaldiana: 6 coblas dissolutas unissonans più la tornada; i versi di ogni cobla sono tutti maschili – tranne il quinto, il cui timbro rimico è -eis – e ottosillabi tranne l’ultimo, che è invece un decasillabo (anche queste due tipologie di versi sono tra le più utilizzate da Arnaut). L’analisi puntuometrica ci suggerisce inoltre che probabilmente, nonostante la struttura dissolutas, è possibile identificare nuclei sintattici interni, suggeriti dalla struttura – a distico – della tornada e poi, appunto dalla punteggiatura. Di seguito la sintesi dei valori:

I c.

II

III

IV

V

VI

Somma

1°v.

1

2

1

4

1

1

1

3

1

1

2

2

2

2

2

3

11

1

3

1

1

1

5

2

1

2

2

1

3

11

1

1

2

4

3

3

3

3

3

3

18

Quindi la punteggiatura suggerisce una ripartizione interna, pur non evidenziata da diesis, delle coblas secondo lo schema 4+2+2, dove l’ultimo distico è proprio quello indicato dalla tornada, così come, leggendo il testo, anche lo svolgimento stesso dell’argomentare del trovatore.

Altro importante ambito di riflessione è ancora la rarità delle rime: la vida ce ne informa immediatamente presentando le caras rimas come elemento distintivo della poesia di Arnaut, evidentissimo, oltre che naturalmente nella scelta dei timbri, nelle sue costruzioni testuali, nei meccanismi di permutazione interni alle coblas, che andranno perfezionandosi negli anni fino alla massima sublimazione della sestina, a scandire un percorso in cui il trovatore perigordino ci dimostra, e ne è egli per primo estremamente cosciente, di “avere” davvero obrador e taverna (Ab gai so, v.28). Dunque ciò vale anche per Amors e jois e temps e luecs: da una breve ricerca della frequenza dei timbri rimici della canzone, quasi tutti sono poco frequenti, anzi caratterizzati in maniera piuttosto particolare, decisamente non casuale nella coscienza ed elaborazione poetica e metaletteraria di Arnaut Daniel. L’unica più frequente – con 1184 occorrenze, pari a poco più dell’1% nell’intero corpus trobadorico – è la rima in –ers (v. 7 di ogni cobla); ancora una frequenza più alta rispetto alle altre si registra per la rima in –an (v.3), contando 257 occorrenze all’interno delle quali è però necessario distinguere tra an nome (l’anno) e an voce verbale (terza persona plurale del presente indicativo del verbo avere), notando come le voci verbali siano nettamente più frequenti del nome che qui ci interessa. Molto minori le altre frequenze:

em(p)s (v.1) conta 43 occorrenze, delle quali 9 solo arnaldiane – riferite a questa canzone e ad Autet e bas entre·ls prims fuelhs – mentre le altre sono soprattutto riferibili a Giraut de Bornelh, Marcabru e Raimbaut d’Aurenga;

erc (v.2) conta ancora 43 occorrenze, tra le quali, oltre quelle arnaldiane, se ne trovano ancora di Giraut de Bornelh, Raimbaut d’Aurenga e soprattutto di Gavaudan;

-ou (v.4) conta 29 occorrenze, 9 arnaldiane e le altre ancora di Raimbaut d’Aurenga, Raimbaut de Vaqueiras e Raimon de Miraval;

-eis (v.5) conta 129 occorrenze, la maggior parte delle quali riferite a tre testi di Bertrand de Born: A! Lemozin, francha terra cortesa, Nostre Seigner somonis el meteis, S’abrils e foillas e flors (ed. Gouiran, 1985);

-ucs (v.6), questo forse il risultato più significativo e interessante, conta 45 occorrenze utilizzate esclusivamente da Arnaut e Marcabrù;

-ecs (v.8) conta infine 28 occorrenze, di cui 7 arnaldiane (questo timbro è utilizzato solo in Amors e jois).

Riflettendo sui risultati appena proposti, salta immediatamente all’occhio come la presenza degli auctores arnaldiani non sia affatto casuale: in particolare la ripresa dei timbri rimici di Raimbaut d’Aurenga e di Marcabrù si definisce probabilmente come precisa dichiarazione di poetica, ripresa consapevole per delineare e mostrare anche il proprio status poetico proprio e soprattutto nell’artigianalità, nell’aspetto più importante del suo esercizio. Valgono a dimostrare ciò i tanti richiami intratestuali presenti nella sorta di miniciclo – come prima si diceva – di cui Amors e jois e temps e luecs fa parte insieme ad Ab gai so cuindet e leri – che la precede – e Ans que sim reston de branchas, a seguire: l’aspetto fabbrile del trobar non è qui esplicitamente calcato – sebbene il trovatore insista sulla creazione poetica: “n’ai mogut un chantar tot nou” (v.44) e anche “farai, c’Amors m’o comanda,/breu chanson de razon lonia,/ que gen m’a ducx de las artz de s’escola” in Ans que sim reston de branchas, vv. 3-5 – ma vale e resta fondamentale nella linea tematica che complessivamente ne viene fuori, a disegnare Arnaut uomo e poeta indissolubilmente legati, che compie un percorso, appunto umano – affrontando le vicende della propria vita, soprattutto l’abbandono della vita ecclesiastica, l’assunzione dello status di clericus vagantes, i colpi avversi della Fortuna – e insieme poetico – l’amore infelice e tormentato per una donna sdegnosa che fa cassar lebr’ab lo bou e amassar l’aura ma che al contempo stimola il comporre e soprattutto l’obrar e il limar, ancora una volta memori tanto dell’ “officina” di Guglielmo IX sia della rimeta prima del conte d’Orange – alla ricerca di quella maestria e quella perfezione che gli varranno sia la fama di trovatore delle caras rimas di cui ci parla anche la razo di Anc ieu non l’ac sia la fortemente ambita dignità dell’uomo nuovo, dopo la perdita al gioco, che cerca proprio in virtù della propria cultura e dei propri motz de valor il vertice della società che vive, in continua evoluzione, l’ambiente esclusivo dell’elaborazione culturale e ideologica della classe dirigente. All’interno di questi richiami intratestuali possiamo dunque ravvisare il nucleo tematico fortissimo di un amore incondizionato, espresso di contro attraverso metafore economiche che allo stesso tempo sottolineano anche la rinuncia ai beni mondani in favore del sentimento che eleva e raffina; amore egualmente incondizionato che si sottopone alla sofferenza fisica e l’annulla, anzi dalla prova si rafforza; infine un amore irrealizzabile ma che non può fare a meno di continuare a esistere, che trova la propria espressione così eroica nella tornada di Ab gai so, quei versi – secondo la felice definizione di Eusebi, la vera “divisa poetica di Arnaut” – che riecheggiano nella vida, persino nella strofa satirica del Monge di Montaudon e naturalmente negli altri componimenti qui indicati. Riassumiamo brevemente di seguito i principali richiami intratestuali:

L’amore attraverso la metafora economica e la rinuncia alla mondanità

Ab gai so cuindet e leri

Amors e jois e temps e luecs

Ans que sim reston de branchas

[…]sieu so del pe tro qu’al cima […]

[…]mais l’am que qui m des Luzerna*[…]

[…]no vuelh de Roma l’emperi/ni qu’om m’en fassa postoli/qu’en leis non aia revert […]

[…] e si l maltrait no m restaura/ab un baizar anz d’annueu[…]

[…]piegz tratz, aman, qu om che laura/qu’anc non amet plus d’un hueu/selh de Moncli Audierna[…]

[…]Cel qe totz bes pert a ensems/mestiers l’es que ric segnior cerc/per restaurar la perd’e l dan/qe l paubres no il valri’un ou […]

[…] Sieus es Arnautz del sim tro en la sola/e no vuelh ges ses lieis aver Lucerna/

ni l senhoriu del renc on cort Ebres […]

*(qui la maiuscola è, come sempre, arbitraria dell’editore, ma occorre sottolineare, oltre il più ovvio riferimento alla conquista della città, anche l’equivocatio possibile con Dio, visto il tono generale della cobla, la III, in cui il verso si trova)

L’amore che si sottopone a sofferenza fisica e la annulla

Ab gai so cuindet e leri

Amors e jois e temps e luecs

Ans que sim reston de branchas

[…] ges pel maltrag que n soferi/de ben amar no m destoli[…]

[…]tot jorn melhur e esmeri[…]

[…] e si tot venta ill freg aura/l’amor qu’ins el cor mi plueu/mi ten caut on plus iverna[…]

[…]Pauc pot hom valer de joi sems/per me l sai che l’ai agut berc/car per un sobrefais d’afan/don la dolor del cor non mou[…]

[…]non sai om tan si’en dieu frems/ermita ni monge ni clerc/com ieu sui seleis de cui chan/e er proat anz de l’annou[…]

[…]Contramon vauc e no m’encreis[…]Cor, vai sus! ben fas si t suffers:/sec tant q’en leis c’as encubit no t pecs[…]

[…]tant en lieis mos cors esmers[…]

[…]creis ades e meillur e m derc […]

[…]S’ieu n’ai passatz pons ni planchas/per lieis, cujatz qu’ieu m’en duelha?[…]

[…]<tu, qu’alhors non t’estanchas […] totz plaitz esquiv’e desmanda […] que s clama folh qui se meteis afola[…]>*

[…]be m vai d’Amor, que m’abrassa e m’acola,/e no m frezis freitz ni gels ni buerna[…]

*Un altro richiamo forte in questo caso è ancora alla già citata Quan chai la fuelha: […]no sai de re/coreillar m’escarida/que per ma fe/de mielhs ai ma partida./De drudaria/no’m sai de re blasmar,/qu’autrui paria/trastorn en reirazar[…] (vv.21-28). Da qui e in questo senso vale, a mio parere, l’accoglimento a testo della lezione fol rispetto a joi al v.3 di Amors e jois.

La “divisa poetica di Arnaut”

Ab gai so cuindet e leri

Amors e jois e temps e luecs

Ans que sim reston de branchas

[…] Ieu sui Arnautz qu’amas l’aura/e cas la lebre ab lo bueu/e nadi contra suberna.

[…]qan chassava lebr’ab lo bou

[…]tan sai que l cors fas restar de suberna/e mos buous es pro plus correns que lebres[…]

Il malastre amoroso così come si evince dagli esempi appena riportati – malastre che però evolve poi fino a cambiare completamente di segno – ci rimanda sì a un’altra sfortuna egualmente danielina, quella al gioco, ma ricollegandosi di nuovo al testo di Raimbaut d’Aurega in testa alla scheda, anche lui malastruc d’amor, torna ancora in Amors e jois, con un ampliamento significativo: […]car ben am, d’aizo’m clam astrucs;/ma Non-Amatz ai nom anquers[…]. Arnaut dunque chiama se stesso e si presenta come Astrucs Non-Amatz: una contrapposizione netta tra Amore e Fortuna, l’uno nemico dell’altra, in continua lotta, contrapposizione ben nota e attestata nella letteratura medievale, come abbiamo già visto in precedenza. Ma Astruc è anche “a prænomen used frequently by Jews in southern France and eastern Spain; used to this day as a family name in France” (R. Gottheil): basilare, dunque, anche la relazione con l’onomastica ebraica, che gli Ebrei stessi hanno acquisito, in Catalogna, durante il periodo della conversione. E non è forse un caso, proprio a proposito di quest’ultima, che, pochi versi più avanti, anche il cuore di Arnaut si “converta” a lei: […]pero tal a mon cor convers/q’en leis amar volgra morir senecs; e la nuova fede appare quasi più integra di quella di eremiti, monaci e chierici: Non sai om tan si’en Dieu frems,/ermita ni monge ni clerc,/com ieu sui seleis de cui chan[…]; ancora, continuando sull’intratestualità, si possono citare l’intera III cobla di Ab gai so e il v.21 di Ans que sim: […]mas apres Dieu lieis honors e celebres.

E sempre da un’ottica intratestuale si può riflettere sulla fisionomia della donna di Arnaut, colei che assume un atteggiamento dapprima duro nei confronti del poeta, arrivando poi infine a ricambiare il sentimento: che sia la donna di Bouvila, come vuole la vida? La questione è molto complessa. Così come ci illustra Toja (1960), Canello riteneva che le ispiratrici della poesia danielina fossero due: un’aragonese, forse di nome Laura – nome allusivamente espresso da giochi allusivi insistenti: L’aura (canzone IX), laura, aura (X), laurs (XVI); oltre che dai riferimenti all’Ebro, quindi ai luoghi d’origine della donna; tutte le prove a favore della sua identificazione sono comunque molto deboli – e una guascone, celata dal senhal Meills de Ben – non si dà per certo né si ritiene errato il riferimento della vida alla donna di Bouvila – cui è dedicata, fra le altre, anche la canzone XIV; anche la guascone avrebbe avuto comportamento simile all’aragonese: prima sdegnosa, poi, persuasa dai prieghi del trovatore, gli concede i suoi favori. Seguendo l’ipotesi di Canello – alla quale sono seguite molte altre elaborazioni distinte, nessuna però, come questa, confermata con certezza – dunque le tre canzoni del “miniciclo” sarebbero dirette a due donne differenti: Ab gai so e Ans que sim all’aragonese e Amors e jois alla guascone. In realtà, forse proprio la fitta intratestualità, nonché l’ideale progressione di sentimento sulla quale i tre componimenti si pongono, indicherebbe un’unica destinataria, sulla quale non ci sarebbe forse troppo bisogno di discutere per individuarne l’identità: il protagonista reale della sua poesia è Arnaut stesso, teso nello sforzo umano ma eroico di autoaffermarsi, di conciliare la propria cultura e la propria maestria con il mondo che lo circonda, di riscattare il vizio del gioco con l’obrador e la taverna. Uno sforzo sempre in divenire, così come in divenire rimane l’opera di composizione, l’attività fabbrile del trobar – nonostante la coscienza di sé e delle proprie capacità. Non è questo un approdo, un esito che risulta del tutto nuovo: sappiamo già che il fondamento sociologico nella poesia trobadorica è appurato e ben evidente, così come lo stesso riferimento al sociale sarà fondante nella letteratura dei secoli a venire. Un esempio eclatante, già punto di arrivo per questa stessa ipotesi: lo Stil novo, la cui sostanza è certamente molto più elaborata e filosofica-filosofeggiante di quella trobadorica, ma in cui la rivisitazione del topos classico della donna angelo alla luce dell’angelologia filosofica – e quindi in diretta connessione con le intelligenze celesti motrici dei cieli – accentuava la sempre più sottile consistenza reale delle donne dei poeti, rendendole il tramite per cui il poeta-scriba Amoris poteva realizzare appunto il “dettato”, emergendo perciò tra coloro che per elevatezza d’animo e d’ingegno meglio si prestavano alla guida ideologica della società, culminante poi in quella collaborazione tra potere e cultura prospettata nel IV trattato del Convivio. Il discrimine filosofico è però estremamente importante in questo caso e ci porta direttamente a ricomporre di nuovo l’aspetto fabbrile, la Fortuna, il gioco all’interno del complessivo status di poeta e quindi della concezione d’amore: Arnaut non riconosce l’Amore come dictator, né arriva, nei testi qui analizzati, a posizioni totalizzanti e definitive. Anche in Ans que sim, infatti, l’approdo non è mai completo: la donna concede i suoi favori, alleviando le sofferenze del poeta, ma è Amore stesso a incitare il trovatore a non desistere né a interrompere il proprio sforzo di miglioramento e quindi di lode della donna, incarnando così il paradoxe troubadoresque per eccellenza, il joi che si trova nell’amore che mai si completa, che mai si avvicina nel caso del già citato amor de loinh, perché se ciò avvenisse, con lo sforzo verrebbe meno tutto il resto. E Amore – ancora, per Arnaut – non è dictator, ma “plan’e daura” il “chantar que de lieis mueu”: interviene dunque a indorare e raffinare massimamente le parole già “lavorate” artigianalmente, sgrossate e piallate (capus e doli) dal poeta, il cui cantare muove direttamente da lei, e non da Amore. Si ravvisa dunque qui una posizione opposta a quella già espressa da Bernart de Ventadorn in Chantar no pot gaire valer, dove d’ins el cor mou lo chan e il cor non può che essere animato da fin’amors coraus: è qui che materialmente si testa la mancanza del sostrato filosofico nella poesia arnaldiana, al contrario di Bernart, certamente influenzato da Riccardo di S. Vittore – ancora e non solo per Dante uno dei grandi teologi della Chiesa – il quale chiaramente lega la capacità di esprimere l’amore all’intimo dettato che può scaturire solo dal cuore. Ulteriore e programmatica differenza può notarsi, similmente, in un altro testo di Bernart, Can vei la lauzeta, nella quale il trovatore afferma di voler rinunciare al canto qualora non fosse reamatz (De chantar me gic e.m recre,/e de joi e d’amor m’escon) al contrario della permanenza – nei testi arnaldiani – del sentimento e della forza che genera il canto, vincendo e anzi fortificandosi di fronte a ogni avversità. A tal proposito è interessante citare anche lo scambio di componimenti che coinvolge ancora Bernart de Ventadorn (ancora Can vei la lauzeta ma anche la stessa Chantar no pot gaire valer) e Raimbaut d’Aurenga (No chan per auzel ni per flor) e a cui si riallaccia anche il troviero Chretien de Troyes nella sua D’Amors, qui m’a tolu a moi, che segue sì Bernart nella concezione più cortese dell’amore che procede da cuor gentile e da consapevole elezione – opponendosi quindi all’amore fatale, prodotto da una forza irresistibile, secondo la posizione del conte d’Orange – ma di fatto se ne discosta per le conclusioni completamente opposte. Infatti, mentre Bernart rinuncerebbe al canto se i suoi sentimenti non fossero ricambiati, Chretien conclude: “Cuers, se madame ne t’a chier,/ ja mar por ce t’an partiras:/ toz jorz soies an son dangier,/ puisqu’ anpris et comanciè l’as,/ Ja, mon los, planté n’ameras,/ ne por chier tans ne t’esmaier!/ Bien adoucist par delaier,/et quant plus desirré l’avras,/ tant iert plus douz a l’essaiier”, a sottolineare dunque una dedizione assoluta, anche senza compenso, teorizzando dunque il godimento amoroso come tanto più pieno e vero quanto più raro e difficilmente fruibile. Infatti, planté n’ameras, perché l’abbondanza toglie pregio alle cose largamente disponibili rendendole vili: planté è dunque sinonimo di vilté in questo caso, e ad essa fortemente si oppone, al contrario, la chier tans, la carestia, che si pone dunque ancora come emblema dello spitzeriano paradoxe amoureux à la base de toute la poesie troubadoresque tanto quanto (e molto simile in verità) l’amor de loinh di Jaufre Rudel. Ma non solo: la carestia è già tematica nell’ Ars amatoria, nei Remedia amoris e specie negli Amores ovidiani: “Pinguis amor nimiumque patens in taedia nobis vertitur” (II, XIX, vv, 25-26). Lo stesso termine provenzale, cartat, gioca ambiguamente sul significato dell’aggettivo car, di nuovo così tipicamente arnaldiano: ancora, possiamo citare alcuni versi che programmaticamente si oppongono, probabilmente, ancora a Bernart de Ventadorn, quelli di Lancan son passat li giure: “[…]Qu’ieu non trob jes doas en mil/ ses falsa paraulla loigna/ e puois c’a travers non poigna/ e no torne sa cartat vil[…]” (vv.13-16), dove la falsa paraulla loigna sembra contrapporsi alla lonja paraubla d’amar in Qan l’erba fresch’e lh folha par (BdT 70,39). Dunque, ecco che il cerchio sembra nuovamente tornare a chiudersi, comprendendo in tutt’uno la cartat simbolo di grandezza e veracità d’amore, che rafforza il cuore e il sentimento ma che rinnova anche costantemente l’impegno per scacciare la falsa paraulla, accrescendo il prestigio della creazione artigianale – attività ludica che è creatività, dunque vita e che in quanto tale risente quindi dei colpi di Fortuna – del testo e arrivando dunque ai motz de valor che saran verai e cert. A tal proposito chiudiamo questa scheda tornando al punto iniziale: riflettendo sulle occorrenze del termine astruc, particolarmente significativi – proprio alla luce e in quanto include tutti i punti appena ricordati – appaiono questi versi di Giraut de Bornelh, forse non sconosciuti ad Arnaut, da Amars, onrars e charteners (vv.1-16 e 33-40):

Amars, onrars e charteners,

Umiliars et obezirs,

Loncs merceiars e loncs grazirs,

Long’ atendens’ e loncs espers

Me degron far viur’ ad onor,

S’eu fos astrucs de bo senhor!

Mas car no.m vir ni no.m biais,

No vol Amors qu’eu sia gais.

Pero mos sens e mos sabers

E mos parlars e mos be-dirs,

Mos esperars e mos sofrirs

E mos celars e mos temers

M’agron totztems onrat d’amor,

S’eu perchasses mo ben alhor!

Mas cilh que.m ten en greu pantais

No vol qu’eu l’am ni que m’en lais.

[…] Era.m combat sobrevolers

E sobramars e loncs dezirs

E fa.m chassar sobrenardirs

E foleiars e no-devers

So que no tanh a ma valor,

E s’eu volh trop per ma folor,

Mos sens en par alques savais!

Mas eu remanh fis e verais.[…]

Melania Gatti