Ab gai so e Bernart de Ventadorn

Arnaut Daniel, Ab gai so e Bernart de Ventadorn

(Fulvio De Santis)

Bernart de Ventadorn (BdV), spesso considerato il più grande dei trovatori provenzali, apre una tra le sue più famose canzoni come segue:

Chantars no pot gaire valer,

si d’ins dal cor no mou lo chans;

ni chans no pot dal cor mover,

si no i es fin’amors coraus.

Per so es mos chantars cabaus

qu’en joi d’amor ai et enten

la boch’e·ls olhs e·l cor e·l sen.

E’ possibile ravvisare una relazione intertestuale tra questa canzone, in particolare tra la strofa riportata, e Ab gai so di Arnaut Daniel, il cui esordio è:

Ab gai so cuindet e leri

fas motz e capus e doli,

que seran verai e sert

quan n’aurai passat la lima,

qu’Amor marves plan’e daura

mon chantar que de lieis mueu

cui Pretz manten e governa.

La lettura della prima strofa delle due canzoni fa emergere una certa distanza tra i rispettivi autori, per quanto riguarda il loro atteggiamento nei confronti della relazione tra canto-amore-cuore e ruolo del poeta.

BdV afferma espressamente nella prima cobla che:

a nulla vale il canto se non viene dal cuore (chantars no pot gaire valer, / si d’ins dal cor no mou lo chans);

il canto non può muovere dal cuore se non c’è amore fino e “corale”, ovvero interiore (ni chans no pot dal cor mover, / si no i es fin’amors coraus);

il canto del poeta eccelle perché poggia sulla gioia d’amore (per so es mos chantars cabaus / qu’en joi d’amor ai et enten / la boch’e·ls olhs e·l cor e·l sen).

AD sembra invece voler:

rivendicare un ruolo da protagonista per se stesso, in quanto “artigiano” della parola (fas motz e capus e doli);

assegnare ad Amore un ruolo fondamentale ma, almeno temporalmente, secondario rispetto a quello del poeta nella produzione del “chantar”. Amore interviene infatti solo a rifinire, forse a levigare, ciò che il poeta ha generato e su cui già ha “passat la lima” (quan n’aurai passat la lima, / qu’Amor marves plan’e daura / non chantar…).

A prescindere dalle possibili interpretazioni degli ultimi due discussi versi della I cobla di Ab gai so (que de lieis muou / cui Pretz manten e governa), AD sostiene infatti che le sue parole, prima dell’intervento d’Amore, sono comunque verai e sert e quindi, a differenza di quanto affermato da BdV, non prive di valore.

La posizione di BdV in Chantars no pot, diversa da quella che emerge in Ab gai so, ha importanti riferimenti ideologici. Antonelli (1978) individua uno dei principali di questi in Riccardo di S. Vittore (Scozia, ca 1110 – Parigi10 marzo 1173), priore e maestro di teologia presso l’abbazia di San Vittore (presso Parigi) dal 1162 al 1173. Riccardo di S. Vittore, incluso da Dante (Par. X, 130) tra i grandi teologi e dottori della Chiesa, afferma che può parlare d’amore solo chi lo fa sotto l’intimo dettato del cuore. Questo è il ben noto solco nel quale si colloca Dante stesso in Purg. XXIV, vv.52-55:

…I’ mi son un, che quando

Amor mi spira, noto, e a quel modo

ch’e’ ditta dentro vo significando.

Ancora più esplicitamente, nella Monarchia, III, IV, 11, Dante definisce Dio “unicus Dictator” che spiega le proprie intenzioni attraverso le penne di molti: “Nam quanquam scribe divini eloquii multi sint, unicus tamen dictator est Deus, qui beneplacitum suum nobis per multorum calamos explicare dignatus est”.

Per BdV, come poi sarà per Dante – con le dovute differenze – il poeta è pertanto strumento materiale, ispirato e mosso da Amore/Dio, che nulla può in assenza di “fin’amors coraus”.

Antonelli (1978, pag. 182, nota 5) ravvisa nei versi di BdV un’ autoesaltazione che si fonda “su una conoscenza ‘amorosa’ da lui ritenuta superiore”: l’amore è cioè strumento di conoscenza e indice di gentilezza e superiorità. Nella II cobla, BdV afferma la propria disponibilità ad amare senza alcuna ricompensa, proprio per l’arricchimento e quindi l’elezione che da questa esperienza deriva. La misura di tale autoesaltazione è ben resa dalle due strofe finali di Chantar no po, in cui il poeta riafferma con forza l’ispirazione del proprio cantare e quindi la propria eccellenza:

Lo vers es fis e naturaus

e bos celui qui be l’enten;

e melher es, qui·l joi aten.

Bernartz de Ventadorn l’enten,

e·l di e·l fai, e·l joi n’aten!

L’indissolubilità tra Amore e canto è affermata da BdV anche nella canzone Can vei la lauzeta mover che, come noto, assieme a No chant per auzel di R. d’Aurenga e a D’amors qui m’a tolu a moi, del romanziere e troviere C. de Troyes, forma una triade di componimenti in cui i tre grandi autori confrontano, anche polemicamente, le rispettive concezioni d’amore. La posizione di BdV nei confronti della mancata ricompensa d’amore è però in questa opera diversa da quella che troviamo in Chantars no pot. Negli ultimi due versi della tornada di Can vei la lauzeta mover, BdV, deluso per l’impossibilità di ottenere amore, dichiara infatti la propria intenzione di rinunciare ad amare e a cantare:

de chantar me gic e m recre,

e de joi e d’amor m’escon.

Proprio su questo atteggiamento si innesta la polemica con il “libertino” R. d’Aurenga, che invece afferma la propria fede assoluta in amore e nella sua donna del momento, e con C. de Troyes, sostenitore della fedeltà assoluta e della paziente sofferenza nell’esperienza amorosa.

Indipendentemente dal “dibattito” tra BdV, R. d’Aurenga e C. de Troyes (si veda al proposito la discussione in Antonelli, 2007), è qui interessante osservare la diversa posizione di AD (in Ab gai so) e di BdV (in Can vei la lauzeta mover), rispetto al possibile fallimento amoroso. All’atteggiamento rinunciatario di BdV, si contrappone infatti la dichiarazione di AD di voler comunque continuare a comporre musica e poesia per l’amata, anche se lei non dovesse curarsi di lui (cobla VI).

Dalla lettura in parallelo di Ab gai so e delle due canzoni Chantars no pot e Can vei la lauzeta mover sembrerebbe quindi che AD voglia ritagliare per se stesso un ruolo in qualche modo più modesto e paziente (ma, proprio per questo, più umano ed eroico) di quello di BdV, sia nella versione autoesaltante di Chantars no pot, che in quella rinunciataria e di autocommiserazione di Can vei la lauzeta mover. E infatti, dall’opera di artistica rifinitura artigianale (cobla I), dalla venerazione quotidiana dell’amata (cobla II), dalle mille messe offerte o pronunciate (cobla III) e dal voler comporre musica e poesia per l’amata, anche se lei non dovesse curarsi di lui (cobla VI), emerge da Ab gai so una figura umana caratterizzata da grande costanza e tenacia, sia per quanto riguarda il proprio ruolo di poeta-fabbro che per la volontà di lottare, pur consapevole dell’inutilità dei propri sforzi. Tale tenacia è emblematicamente rappresentata dalla famosa triplice amara metafora dell’immane e vano lavoro che chiude la canzone:

Ieu sui Arnautz qu’amas l’aura

e cas la lebre ab lo bueu

e nadi contra suberna.

Riferimenti bibliografici

Antonelli R. (1978). Le Origini. In Storia e antologia della letteratura italiana (a cura di A. Asor Rosa), vol. 1. La Nuova Italia Editrice, Firenze.

Antonelli R. (2007). Avere e non avere: dai trovatori a Petrarca, in “Vaghe stelle dell’Orsa”. L’ “io” e il “tu” nella lirica italiana, a cura di F. Bruni. Marsilio, Padova, pp. 41-75.

——-

Chantars no pot gaire valer

B. de Ventadorn

Ed. Appel, 1915, 15

I

Chantars no pot gaire valer,

si d’ins dal cor no mou lo chans;

ni chans no pot dal cor mover,

si no i es fin’amors coraus.

Per so es mos chantars cabaus

qu’en joi d’amor ai et enten

la boch’e·ls olhs e·l cor e·l sen.

II

Ja Deus no·m don aquel poder

que d’amor no·m prenda talans.

Si ja re no·n sabi’aver,

mas chascun jorn m’en vengues maus,

totz tems n’aurai bo cor sivaus;

e n’ai mout mais de jauzimen,

car n’ai bo cor, e m’i aten.

III

Amor blasmen per no-saber,

fola gens; mas leis no·n es dans,

c’amors no·n pot ges dechazer,

si non es amors comunaus.

Aisso non es amors: aitaus

no·n a mas lo nom e·l parven,

que re non ama si no pren!

IV

S’eu en volgues dire lo ver,

eu sai be de cui mou l’enjans:

d’aquelas c’amon per aver.

E son merchadandas venaus!

Messongers en fos eu e faus!

Vertat en dic vilanamen;

e peza me car eu no·n men!

V

En agradar et en voler

es l’amors de dos fis amans.

Nula res no i pot pro tener,

si·lh voluntatz non es egaus.

E cel es be fols naturaus

que de so que vol, la repren

e·lh lauza so que no·lh es gen.

VI

Mout ai be mes mo bon esper,

cant cela·m mostra bels semblans

qu’eu plus dezir e volh vezer,

francha, doussa, fin’e leiaus,

en cui lo reis seria saus.

Bel’e conhd’, ab cors covinen,

m’a faih ric ome de nien.

VII

Re mais no·n am ni sai temer;

ni ja res no·m seri’afans,

sol midons vengues a plazer;

c’aicel jorns me sembla Nadaus

c’ab sos bels olhs espiritaus

m’esgarda; mas so fai tan len

c’us sols dias me dura cen!

VIII

Lo vers es fis e naturaus

e bos celui qui be l’enten;

e melher es, qui·l joi aten.

IX

Bernartz de Ventadorn l’enten,

e·l di e·l fai, e·l joi n’aten!

Schema metrico

  • abac cdd; 2 tornadas: cdd dd
  • ottosillabi maschili (8)
  • 7 strofe unissonans + 2 tornadas

Analisi puntuometrica

I

II

III

IV

V

VI

VII

TOT.

1

1

1

1

1

2

6

2

2

3

1

2

3

1

12

3

1

1

1

3

1

2

2

11

4

3

1

3

3

3

2

15

5

2

3

3

8

6

1

1

2

1

6

7

3

3

3

2

3

3

3

21

Lascia un commento