L’aura

Il complesso sistema di isotopie sul nome di Laura trova una sua giustificazione nelle etimologie di Isidoro di Siviglia. Quello relativo alla derivazione di laurus da laus, lode, è noto («laurus a verbo laudis dicta; hac enim cum laudibus victorum capita coronabuntur»); ancora non valorizzata in direzione petrarchesca è quello che connette l’aurum all’aura, presente nel paragrafo De auro del XVI libro delle Etymologiae, dove si trova anche citata un’auctoritas virgiliana certo nota al Petrarca:

Aurum ab aura dictum, id est ab splendore, eo quod repercusso aere plus fulgeat. Unde Vergilius (Aen. VI, 204): Discolor unde auri per ramos aura refulsit, hoc est splendor auri. Naturale enim est ut metallorum splendor plus fulgeat luce alia repercussus.

Quindi l’oro prende il nome dallo splendore dell’aura, assimilata di fatto alla luce, allo splendore («al modo in cui quando il bronzo viene colpito dalla luce rifulge di più»), giacché è naturale che lo splendore dei metalli rifulga di più quando è colpito da un’altra fonte luminosa. Il passo virgiliano citato da Isidoro di Siviglia (Aen. VI, v. 204: «donde rifulse fra i rami l’aura di diverso colore dell’oro») è quello notissimo del VI libro dell’Eneide, dove si parla del momento in cui Enea trova, in una fitta selva nei pressi dell’ingresso dell’Averno, il ramo d’oro che, secondo quanto la Sibilla gli aveva detto, era necessario per compiere il viaggio ultraterreno. Nel verso citato da Isidoro, il lemma “aura”, che in genere significa “soffio d’aria, brezza, aria, cielo”, viene utilizzato da Virgilio nel senso di “luminosità, scintillio, splendore”.

Il gioco etimologico e paronomastico fra aurum e aura, del resto, dovette avere un’ampia e lunga tradizione. Lo troviamo già in epoca tardo-antica nell’Expositio in Psalterium di Cassiodoro:

Antiqui aureum colorem pulcherrimum vocaverunt; et ideo aurum ab aura dictum esse voluerunt, quod nimis gratissimo colore resplendeat. Nam hodieque aureum dicimus, quod pulchrum volumus aestimare.

E’ accennato in un testo di Venanzio Fortunato In laudem sanctae Mariae Virginis et matri Domini:

O quoties coctum zonae micat aura per aurum,

Pallida nec pallae est fimbria luce nitens!

Il passo isidoriano viene invece ripreso quasi letteralmente da Rabano Mauro nel De Universo, XVII, xii:

De auro

Aurum ab aura dictum, id est a splendore, eo quod repercusso aere plus fulgeat. Unde et Virgilius: “Discolor inde auri per ramos aura refulsit”. Hoc est, splendor auri; naturale enim est, ut metallorum splendor plus fulgeat luce alia repercussus.

E’ quindi estremamente probabile che Petrarca fosse a conoscenza di questa tradizione. Nondimeno, non sembrano ormai sussistere più dubbi sul fatto che la preistoria di Laura sia da ricercare anche in un notissimo passo trobadorico, la famosa tornada della canzone di Arnaut Daniel Ab gai so cuindet e leri:

Ieu sui Arnautz qu’amas l’aura

e cas la lebre ab lo bueu

e nadi contra suberna.

Questa canzone è intessuta di metafore volte a esprimere il legame fra amore, arte ed artigianato. La verità delle parole è qui direttamente legata al labor limae del poeta, la coscienza della veridicità è in rapporto con la retorica: la posizione di Arnaut Daniel si oppone a quella del suo modello Marcabru, critico invece della doratura delle parole, della «falsa razo daurada». Per Arnaut Daniel è Amore che indora le parole e che porta il poeta all’utilizzo di quegli artifici retorici che sono invece criticati dal grande moralista. L’Amore che canta Arnaut Daniel è in grado di apportare un miglioramento, un dirozzamento nell’animo come nelle parole: Amore è la causa del perfezionamento sentimentale e retorico del poeta, la fin’amor come il fin aur, il raffinamento della persona come il raffinamento dell’oro. In Ab guai so ritorna poi particolarmente insistente il motivo del disinteresse del poeta nei confronti dei beni materiali e degli onori mondani ed è accennato il tema della “perdita” per troppo volere (vv. 23-24): «qu’ab trop voler cug la.m toli, / s’om ren per trop amar pert».

Tenendo conto di questo quadro, ho fornito in altra sede una spiegazione del primo verso della tornada (v. 43): «Ieu sui Arnaut qu’amas l’aura». Il verbo amas sembrerebbe essere un termine tecnico dell’accumulazione improduttiva delle ricchezze e trova corrispondenza in un luogo di Bertran de Born legato all’opera di Arnaut Daniel:

E ja thezaur vielh no vuelh amassar,

Qu’ab thesaur jove pot pretz guazagnar.

Ritroviamo poi il termine in funzione significativa in una tenzone fra Peire ed Albertet:

Amics Peire, per messongier

vos en tenran li conoissen,

car cel que a destrugemen

met lo sieu e non garda com

e non cerca ga ni razon,

vos dic q’es plus fins amaire

qe·l vostre, q’es amassaire,

e drutz q’amassa ni rete

non ama ges per bona fe,

anz es vas si donz trichaire.

La posizione di Albertet, effettivamente, è paradigmatica di tutto un modo di intendere la fin’amor: «colui che manda in rovina il suo patrimonio […] è amante più fino di quello che voi difendete, il quale è un ammassatore, e l’amante che ammassa ed economizza non ama affatto con buona fede, anzi è ingannatore verso propria dama». Il fins amaire non può essere amassaire, amar si oppone ad amassar, insomma, chi ama non ammassa. Questa posizione, in duro contrasto con coloro che accumulano beni e ricchezze, è rintracciabile fra i trovatori fin da Bernart de Venzac, il quale sostiene che mai sarà pregiato né prode nessun uomo per ricchezza che ammassi:

Ja mais non er presatz ni pros

negus hom per aver qu’amas.

Nello stesso modo in una cobla anonima l’accumulazione di oro ed argento viene considerata contraria ai principi cortesi:

Ben es gran danz de cortesia

q’es cazut ios e tornat a nienz

zo son li avars qe cuian noig e dia

aur e argen amassar e tenir

Al mondano ammassare «thezaur» o «l’aur» Arnaut Daniel oppone quindi il suo «ammassar l’aura». Il gioco è evidente: anche qui viene rivendicata la rinuncia alle ricchezze terrene, non l’aur, ma l’aura, non l’oro, ma l’aria; anche qui la derivazione isidoriana gioca su un piano implicito, ma è evidentemente ben presente ed operante. Arnaut Daniel non chiarisce in cosa consista questa aura ammassata, lascia il gioco su un piano volutamente allusivo, enigmatico ed ambiguo, come del resto fa anche per gli altri termini dell’adynaton, ma il gioco viene ripreso ed esplicitato da un altro trovatore, Aimeric de Peguilhan che trasforma l’aura ammassata nel «capitale di sospiri» concesso dall’amata e fatto fruttare dal trovatore:

Pus ma belha mal’amia

m’a mes de cent sospirs captal,

a for de captalier lial

los ai cregutz quascun dia

d’un mil, per q’ueimais seria,

sol qu’a lieys plagues, cominal,

que los partissem per egual,

qu’aissi·s tanh de companhia.

Dacché la bella e cattiva amica del trovatore lo ha dotato di un capitale di cento sospiri, egli, a guisa di leale “capitalista”, li ho fatti crescere di mille al giorno; quindi ormai sarebbe giusto, che i profitti fossero ripartiti in parti uguali, perché così si opera quando si è in società con qualcuno.

E’ proprio su questo crinale che, a questo punto, vorrei condurre il ragionamento: Aimeric de Peguilhan reintrepreta probabilmente l’aura ammassata da Arnaut Daniel con il capitale dei sospiri. Per Petrarca potrà valere lo stesso discorso? Fino a che punto, cioè, Laura può essere associata ai sospiri del poeta?

Petrarca ha certamente conosciuto e imitato il testo danielino che aveva dato origine all’epiteto di «miglior fabbro». In particolare, la sestina 239 è il luogo in cui il sistema dell’aura si fa più palese e dove la citazione di Ab gai so è più esplicita. Aggiungerei che la ripresa è sapientemente accostata ad una allusione a Raimbaut d’Aurenga, l’autore aurato per antonomasia oltre che per evidenti ragioni onomastiche (oltre che al toponimo di provenienza, si pensi al nomignolo Linhaure con cui Raimbaut dibatte con Giraut de Bornelh). Gli ultimi versi della sestina petrarchesca recitano (vv. 31-39):

Ridon or per le piagge erbette et fiori:

esser non po’ che quella angelica alma

non senta il suon de l’amorose note.

Se nostra ria fortuna è di più forza,

lacrimando et cantando i nostri versi

et col bue zoppo andrem cacciando l’aura.

In rete accolgo l’aura, e ‘n ghiaccio i fiori,

e ‘n versi tento sorda e rigida alma

che né forza d’Amor prezza né note.